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R Recensione

7,5/10

Half Moon Run

Dark Eyes

Chissà cosa avrebbe pensato Herman Hesse – scrittore del celebre “Amicizia”- sentendo la storia di questi quattro ragazzi canadesi. Con loro decade l’immaginario collettivo delle vecchie biografie di band che narrano di legami imprescindibili tra i musicisti coinvolti. Storie che spesso ci hanno fatto sognare, come quella di tre giovani ragazzi che leggono l’annuncio affisso a scuola da un promettente batterista in quel di Dublino. Gli Half Moon Run, invece, non hanno grandi episodi alle spalle da raccontare, bensì solo una certezza: si stanno ancora conoscendo, nel senso che il legame indissolubile che per gli altri è un collante sociale utile ad intraprendere il cammino artistico, nel loro microcosmo è materia ignota. Il fine ultimo, dunque, è la ricerca di una comunicazione empatica che coinvolga non solo l’ascoltatore ma gli stessi musicisti coinvolti, alla ricerca di una sinergia perfetta.

Gli Half Moon Run provengono da Montreal, fucina generazionale prodiga di nuovi talenti musicali e si sono imposti agli onori della cronaca con una miscellanea sonora che incapsula reminiscenze folk a ben più moderne propulsioni indie rock. Il gioco, in realtà, è molto più semplice di quanto si possa immaginare. Effettuato il giro di boa nei meandri del revisionismo folk – che con i Fleet Foxes ha esaurito quanto di più bello c’era da dire – l’unico modo per poter incunearsi nei mercati musicali senza perire adombrati dalle sagome dei più grandi era quello di innovare la propria proposta. Il concetto di innovazione è, in questo caso, inteso come un breakthrough, un piccolo passo in avanti che nulla comporta in termini di stravolgimento del sound, tutt’altro. Nasce così Dark Eyes, un piccolo gioiello grezzo dalla superficie rifulgente e dalle mille sfaccettature contrastanti.

Camminando con passo felpato sopra un filo di lana, gli Half Moon Run ammaliano con Full Circle il loro singolo di apertura: dal rincorrersi delle melodie e delle armonie che, come molecole impazzite, inseguono la fusione perfetta, dal fingerpicking delle chitarre che rievoca intime sensazioni passate o dalla splendida voce di Devon Portielje che tesse infinite trame fatte di percezioni melodiche. Basta poco, giusto l’introduzione di Call me in the afternoon, per deviare le certezze stilistiche in direzione Crosby, Stills, Nash & Young periodo Déjà Vu, con tanto di strutturazione melodica di cori che, pian piano, sopperiscono sotto l’egida di moderni refrain pop scanditi da tribalismi nevrotici. In altri frangenti il quartetto canadese cerca alvei limpidi nei drammatici arpeggi di No more war che sottendono una passione latente per il Buckley più criptico. Nel coacervo di suoni non mancano certe influenze contemporanee rimarcate dalla modernità dei synth che dipingono universi attuali instillando incontenibili sensazioni di deja senti. In questo caso gli Half Moon Run si spogliano di ogni rimando vintage e remano in direzione Radiohead ( Give up) cedendo il passo ad una sorta di personalissimo tributo a Yorke e soci.                                                                                                         

Dark Eyes è un disco incredibilmente maturo, un esordio al fulmicotone che mostra quattro giovani hipster sbarbatelli, con occhiali da nerd, capelli unti e arruffati, cimentarsi in un progetto dai tanti volti che gioca su più livelli a effetti contrastanti: il più delle volte ammalia per i poderosi arrangiamenti e le concrete soluzioni sonore mentre in rari casi – soprattutto quando i toni si placano e la materia diviene eccessivamente melensa – un po’ annoia.  Nulla di cui preoccuparsi comunque, solo qualche piccolo intoppo che inficia superficialmente questa maestosa scocca; il resto è tutta materia prima di qualità.

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Ubik alle 12:49 del 26 agosto 2013 ha scritto:

Bellissimo, lo sto ascoltando da circa una settimana; in alcuni pezzi (come in full circle), sono di un livello superiore; in altre si perdono un po'; spesso ricordano molto gli Alt j.