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R Recensione

6/10

Ventura

Ultima necat

Omnes feriunt, ultima necat. Tutte feriscono, l’ultima uccide (riferito alle ore che passano). Il motto di Seneca il Retore rimbomba ancor’oggi negli scritti nichilisti e in certa filosofia neostoica. I Ventura, band elvetica formata da Diego Göhring al basso, Michael Bedelek alla batteria e Philippe Henchoz alla chitarra e voce del gruppo (qui è là troviamo pure la live guitar di Olivier Schubert), ci avvertono subito: «Questo album è stato registrato con una filosofia egocentrica depressiva, con un sacco di trucchetti e di sovraincisioni». Il genere di “Ultima necat” è prettamente rockettaro, tra inclinazioni post ed echi noise, ma in ultima analisi risulta più vicino all’indie rock dei dEUS o al lo-fi dei nostri Yuppie Flu. Un disco che conserva un evidente apparato melodico ma che non è solare, nel quale poco spazio viene riservato alle aperture. È tutto un susseguirsi di incandescenze rock, con repentini cambi ritmici e un cantato disseminato di rabbia ed improperi.

Diciamolo subito: l’episodio più felice del disco è “Body language”, un perfetto brano di rock europeo. Distorsioni affascinanti, batteria infuocata, mood malinconico e la voce di Henchoz che sembra quella di un bambino deluso. “About to despair”, “Little wolf”, “Nothing else mattered” e “Intruder”, che costituiscono il primo tempo del disco, sono molto simili tra loro e non fanno che fissare nella mente dell’ascoltatore lo stile Ventura, un rock sano e rabbioso, organico e compatto, senza alcuna concessione ambient, senza la tipica dilatazione ritmica di band come Sigur Rós ed Eluvium. La seconda parte di “Ultima necat” comincia con la lunghissima prosodia di “Amputee”, un pezzo studiato per creare un’alchimia particolare di accenti vocali, accordi in croce, bassi portentosi e batterie velocissime. I dodici minuti di “Amputee” formano quasi un percorso a se stante, proprio perché confutano quanto detto sinora: allorché il brano sembra chiudersi, ecco partire un’appendice strumentale tipicamente post-rock fatta di sospensione, e un senso di instabilità ci pervade, un’attesa di suoni fervidi, un’incessante rincorsa ai BPM della batteria. “Corinne”, “Very elephant man” e “Exquisite & subtle” ripercorrono la strada iniziale, con un indie rock potente e chiassoso, ricacciando indietro ogni aspirazione post, semmai invadendo a volte i territori del punk.

“Ultima necat” è il terzo disco degli svizzeri ma va detto che il frontman Philippe Henchoz, col moniker The Sinai Divers, ha pubblicato l’anno scorso un disco solista intitolato “Elders”, molto più acustico delle sue produzioni di gruppo. Questa terza prova dei Ventura è convincente ma sinceramente credo che non apporti alcuna aggiunta di valore al post-rock continentale. Chiamiamolo post-rock anche se post-rock non è.

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