Sonic Youth
The Eternal
Adesso più che mai si ricomincerà con i soliti giochi di parole: “forever young”, “the eternal youth”, “la meglio gioventù”… Non possiamo farci niente, il nome scelto da questi quattro newyorkesi nel 1981 si presta, e la loro carriera aiuta.
Che i Sonic Youth abbiano chiuso il rapporto con la Geffen e si siano affidati ad un’ etichetta indipendente lo sappiamo tutti. Che questa etichetta sia la Matador, pure. E qui sta il primo “ma”, che volendo si può anche leggere “mah”. Perché, insomma, la Matador Records può ancora definirsi indipendente, ma è una corazzata che ha già maturato determinate regole e avuto qualche – chiamiamola così - “digressione” (ricordate? La partnership con la Atlantic Records, la controversa adesione alla R.I.A.A.). Ma sì, queste sono solo calunnie di un malpensante. Il vero problema, semmai, sarebbe quello di tracciare l’origine ed i confini del concetto di “indipendenza”, o quantomeno di tracciare i limiti mentali di chi ancora usa l’espressione “indie”.
Sia come sia, le aspettative per questo “ritorno indie” dei Sonic Youth erano altissime. Ma perché poi? – perdonate se riapro la parentesi – “Goo” non era uscito per la Geffen? E “Dirty”? E “Washing Machine”? Sarà forse che esistono bizzarri personaggi che affermano che “l’ultimo buon disco dei Sonic Youth è “Daydream Nation”, se non addirittura “Confusion is Sex”? (Ma ve lo immaginate? Un disco in fase ascendente e 14 – quattordici – in fase discendente. Alla faccia dell’inerzia…).
Dal canto loro, Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo, Steve Shelley ed il neo acquisto Mark Ibold (ex Pavement, a proposito di indie) ce la mettono tutta per creare la sensazione del deja-vu, del “ritorno al passato indie”. E diciamolo subito: ci riescono fin dalle prime note di “Sacred Trickster”: arsenale di distorsori vecchia scuola e accenti punk nell’interpretazione vocale della Gordon. Due minuti e via. “Anti Orgasm” tiene botta: inizio in puro stile “Goo” e chiusura talmente dilatata e noise da ricordare “Daydream Nation”. Miracolo compiuto?
“Leaky Lifeboat (for Gregory Corso)” riesce ad essere un bel pezzo pur mostrando evidenti riferimenti alla recente produzione (ma perché “Incinerate” da “Rather Ripped” non era forse un bel pezzo?). Stesso discorso per “Antenna”, melodia decisamente “anni ‘90”, eppure completamente priva di quegli spigoli che resero memorabili gli album di quel periodo, inclusi quelli pubblicati da Ranaldo e soci. Molto meglio allora sintetizzare quelle sonorità con le rotondità del presente (o del passato recente), come in “What We Know” (toh, chi si risente! Il rullante di Steve Shelley!), una sorta di “Mary Christ” riletta con diciotto anni in più sulla carta d’identità.
Il piede sull’acceleratore (chissà perché mi vengono in mente i R.E.M. dell’anno scorso) è sempre volutamente pesante, come nel punk-noise di “Calming The Snake” (qui il riferimento sonoro è “Experimental Jet Set, Trash & No Star”, ma la linea melodica sembra arrivare da “Nyc Ghosts & Flowers”). Trascurabile la melodia lineare e ripetitiva di “Poison Arrow” così come il surf-rock di “Thunderclap for Bobby Pin”, nelle quali il riferimento al glorioso passato è evidente quanto prevedibile, se non addirittura forzato. Molto meglio quando il gioco viene condotto dalle splendide armonie delle chitarre di Moore e Ranaldo (chi non ammette il valore di questi due musicisti non li ha mai visti dal vivo): su tutte, “Malibu Gas Station” (“Dirty” al cento per cento).
In chiusura, il solito pezzo di bravura di Lee Ranaldo (non smetterò mai di chiedermi perché non lo facciano cantare di più), intitolato “Walkin Blue” e una coda di quasi dieci minuti denominata “Massage the History” che ci presenta i Sonic Youth più acustici di sempre (ad esclusione di “Winner’s Blues”) e riporta alla mente il rumore bianco di “A Thousand Leaves”.
Insomma, l’operazione revival è decisamente ricercata (i Sonic Youth che fanno i Sonic Youth?) ma anche perfettamente riuscita, visti i continui riferimenti al passato. Vogliamo darne ancora uno? Allora lo diciamo: questi sono i migliori Sonic Youth dai tempi di “Washing Machine”. Ed è già una gran cosa. Che magari non si può essere giovani per sempre. Ma almeno si può rimanere sonici.
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