Sonic Youth
EVOL
I Sonic Youth sono aura intellettuale, chitarre scordate e “preparate”, feedback e distorsioni, accordi tradizionali e atipici, poesia e magia, rumore e angoscia. “Confusion Is Sex”, il loro album di debutto, era figlio del post minimalismo e della sinfonia per chitarre multiple di Rhys Chatham prima e Glenn Branca poi, fratellastro dell'odio delirante no wave di Mars, DNA e Teenage Jesus & The Jerks, cugino degli Stooges più cagneschi e parente alla lontana del punk rock dei Ramones. Nel successivo, “Bad Moon Rising”, titolo preso da una canzone dei Creedence Clearwater Revival, il quartetto di New York incominciò a prendere le distanze dalle sue radici, vomitando noise avvolto in una psichedelia fradicia di etere. A quel punto il fascino dell'oscurità si interruppe parzialmente, le tenebre si diradarono e i Sonic Youth si allontanarono dalla luna malvagia appena sorta. Era il 1985, tempo del tour europeo di “Bad Moon Rising”, quando il batterista Bob Bert fece spazio in pianta stabile a Steve Shelley, ex Crucifucks. Fu il principio di un cambiamento, il materiale per una nuova opera venne scritto, il passaggio all'etichetta SST del chitarrista dei Black Flag si concluse e nel 1986 “EVOL” vide la luce, cui copertina ritrae un'inquadratura del film di Richad Kern “Submit To Me”, in cui recitò, udite udite, la no waver Lydia Lunch.
Erano finalmente i quattro che ancora oggi sono: Thurston Moore, Kim Gordon, Lee Ranaldo e Steve Shelley. I definitivi Sonic Youth. “Sonic” come il chitarrista degli MC5 Fred Sonic Smith, “Youth” come il pioniere dub Big Youth. E poi “EVOL”, a pronunciarsi in maniera simile a “evil”, a scriversi come “love” al contrario. Il fascino dell'enantiodromia intrinseca in ogni cosa già a partire dal titolo. Un album che segnò una svolta e fece della trasfigurazione del noise adattato ad un immaginario “pop” il verbo della gioventù sonica. Incominciò così un lungo cammino che li consacrò paladini del noise rock.
Sin dall'iniziale “Tom Violence” i Sonic Youth traghettano il loro suono in un formato canzone più convenzionale. Linee di basso ossessive, batteria frenetica e furiosa, chitarra di Ranaldo che grida sofferente accompagnata da Moore e dalla sua voce che canta della sua violenza nascosta, quasi fosse un sogno, che lo attira e lo spinge verso nuove esperienze (“My violence is a dream / a real dream / .. / I left home for experience / ..”). Subito dopo compare Kim Gordon nelle vesti di cantante ("Shadow of a doubt"), sussurrando candida e innocente di un incontro sul treno, su note di chitarra a mo' di carillon stregato che sfociano in una violenza a stento contenuta. “Is just a dream” dice, è solo un sogno, e così torna un delicato sussurro. Un sogno che riprende forma dopo il primo minuto da thriller di “Secret girl”, scandito da porte che sbattono e chitarre che cinguettano e seguito da una dolcissima melodia al pianoforte.
Il momento dell'ospite dei quattro ragazzi di New York arriva invece con “In The Kingdom #19”, in cui Mike Watt impugna il basso e si unisce allo spirito free allucinato e privo di sussulti dei tre minuti e venticinque secondi spoken words. Il tutto fa da preludio ad un basso ripetitivo fino allo sfinimento sul quale le chitarre danno libero sfogo alla loro angoscia (“Green Light”) che anticipa la frenesia dissonante di “Death To Our Friends” e neanche la potenza delle stelle può salvare i nostri ragazzi (“Star Power”) perché ci vuole poco a finire in un noise tremendo ma mai fine a se stesso, dove chitarre, basso e batteria danno una convulsa prova di coraggio. Che sia il lento incedere di “Marilyn Moore” con i suoi barriti di chitarra o una corsa piena di speranza con un intermezzo rumorista che diverrà marchio di fabbrica dei Sonic Youth (“Expressway To Your Skull”, altrimenti “Madonna, Sean and Me” o anche “The Crucifixion Of Sean Penn”) o infine l'innocenza rock della non LP bonus track “Bubblegum” (cover di Kim Fowley, al basso Mike Watt), i nostri si mostrano totalmente consapevoli dei loro mezzi e abili nel farne uso per ciò che più li aggrada. È il terzo album della consacrazione (o quarto se si conta il “Sonic Youth ep” del 1982), l'opera iniziatrice della maturità (raggiunta nel 1988 con “Daydream Nation”) che li mostra perfettamente in grado di portare avanti una carriera lunga e piena di soddisfazioni.
“EVOL” ebbe il grande pregio di portare l'avanguardia noise e la rabbia no wave in un contesto rock più tradizionale. Grazie a ciò le porte di infiniti rockers si aprirono per far entrare un vento fresco e innovatore su tutto il panorama rock. Non si contano le schiere di discepoli e gruppi che furono influenzati da quello che i Sonic Youth incominciarono a costruire nel 1986, da gran parte del rock alternativo a quel fenomeno di massa che fu il grunge, dalle mura shoegaze dei My Bloody Valentine al post rock, e via dicendo. Il rumore fu messo al servizio dell'estro di coloro che ne facevano uso, e ciò lo fece assurgere a vero e proprio strumento in musica, tra virgolette, “pop”.
In seguito i capolavori non mancarono, si pensi al successivo "Sister", o al tanto inneggiato "Daydream Nation". Altri ottimi album arrivarono nel tempo, come opere dall'impatto più modesto o talvolta un po' appannate. Ma i nostri quattro ormai vecchietti di New York, tra lavori solisti, collaborazioni e tour mondiali non hanno esaurito l'energia, e per vederlo basta assistere ad un loro concerto. Continuano a suonare, forse un po' troppo legati al loro standard sonoro, forse un po' ammorbiditi, forse con un'ispirazione a tratti altalenante, ma con la grazia e la voglia entusiasta di ragazzini. Sono pur sempre i Sonic Youth, la “gioventù sonica”, e finché avranno gambe su cui stare in piedi, sono sicuro continueranno a suonare emozionando e emozionandosi.
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