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R Recensione

6/10

Mike Patton, Jean-Claude Vannier

Corpse Flower

Effettivamente ancora mancava, in quel caleidoscopico diorama in perenne rotazione che è il curriculum artistico di Mike Patton, un disco che omaggiasse (a modo suo, s’intende) la stagione d’oro della chanson francese. Si parli pure d’infatuazione, ma con la consapevolezza che non di fuitina sul breve periodo si tratta. Difatti, prima dell’incontro di lusso con lo storico compositore Jean-Claude Vannier (avvenuto, secondo i bene informati, nel dietro le quinte dell’A Tribute To Serge Gainsbourg, one-night-show organizzato nell’agosto 2011 all’Hollywood Bowl, in cui lo stesso Vannier prese parte come direttore d’orchestra), la prima testimonianza verificabile dell’amore dell’interprete di Eureka, California per la galassia gainsbourghiana risale ad una vecchia compilation per Tzadik del 1997, “Great Jewish Music: Serge Gainsbourg”, dove Patton interpretava – senza troppi scossoni, va detto – la “Ford Mustang” originariamente contenuta in “Initials B.B.” (1968). Ecco che, dunque, la collaborazione con Vannier, vista da questa prospettiva, acquista tutt’altro senso, si ammanta di tutt’altra logica. La lavorazione di “Corpse Flower”, disco che ufficializza nero su bianco il tandem artistico, è piuttosto particolare: attorno allo scambio transoceanico di file (incisi, modificati, rimodellati…) intercorso tra Patton e Vannier hanno gravitato tre distinti gruppi di musicisti, ossia un quartetto rock con base a Los Angeles, un sestetto parigino con strumentazione mista e, ciliegina sulla torta, il Bécon Palace String Ensemble.

Tale e tanta opulenza tecnica partorisce un ibrido che non si saprebbe se meglio identificare con i lampi di brillante melodismo da cui viene di tanto in tanto trapassato, con il sardonico sberleffo atonale che sembra quasi costituirne il negativo o con quella particolare atmosfera, esattamente a metà tra l’omaggio rispettoso e la perculata galattica, che aleggia su gran parte dei brani qui presentati. I brani, a tal proposito: un collage di cose così diverse e così diversamente riuscite che solo trovare il bandolo della matassa pare già un grande risultato. Giganteggia il Patton crooner, abile manipolatore di logori luoghi comuni musicati con classica sacralità (“Chansons D’Amour”), fonosimbolico megafono di narrazioni noir in bilico tra folk-vaudeville e yè-yè color seppia (“Browning”) e architetto di drammi sentimentali al limite della burla su ambo le sponde della riviera ponentina (già iconico il “When I drink too much / I shit my pants” che dischiude le orchestrazioni autunnali in “Pink And Bleue”). È questa, tuttavia, una posizione dall’equilibrio precario, messa a dura prova da un approccio discontinuo e centrifugo che mal si combina con la coerenza di un canzoniere: dove la stabilità non si infrange contro il muro del kitsch (“Insolubles” è un mancato stornello partenopeo per mandolino e glockenspiel, volutamente e sarcasticamente enfatico) ecco intervenire disordinatamente lentoni funk dissestati da pallide copie degli arrangiamenti iconoclastici dei Mr. Bungle (“Camion”), nenie orrorifiche tutte percussioni e controcanti fanciulleschi (“Cold Sun Warm Beer” è in linea con i lavori pattoniani usciti in tandem con l’Ictus Ensemble) e scialbe romanze zingaresche con uno sguardo sull’americana (“Yard Bull”).

Imbattibile nella sovrapposizione, finanche frenetica, “Corpse Flower” non rivendica quasi mai reali istanze di fusione, così che Patton e Vannier rimangono – a ragione – due corpi ben distinti. Ad aumentare il rimpianto un paio di eccezioni, entrambe notevoli: il felice spoken word performativo di “Ballade C. 3. 3” (una murder ballad su cui spirano refoli da soundtrack) e l’allucinato diario da patologo di “A Schoolgirl’s Day”, sospeso tra sciabolate di violini e bordate elettriche. L’inferno, la carnalità e ciò che li contiene. Appunti per un taccuino delle occasioni mancate.

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