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R Recensione

7/10

Westkust

Last Forever

C’è sempre un disco shoegaze dell’anno, uguale, se non a quello dell’anno precedente, a quello di due anni prima, e debitore dei soliti nomi, per cui è inevitabile usare i soliti termini, e il fuzz, e il gain, e la pece sonora, e il muro di distorsione à la My Bloody Valentine, e tutti gli altri rimandi pienamente legittimi, per non dire necessari, se si vuole dare l’idea di un genere che è identico a se stesso da venticinque anni ma che continua a incarnarsi in dischi capaci ancora, saltuariamente, di rinnovare quell’originaria potenza. Il disco di debutto degli svedesi Westkust fa parte di questa categoria, e perciò vale l’ascolto.

Lo distinguono dalla massa di dischi shoegaze: 1) l’alternanza, nelle voci, di Gustav Anderson e Julia Bjernelind, quasi sempre intrecciate all’interno della stessa canzone, per effetti di particolare dinamismo, tanto più se si considera che 2) quasi tutti i pezzi mantengono un ritmo elevato, e le ballate sono di fatto assenti, mentre a tratti si può avere l’impressione 3) di ascoltare una band twee o indie pop, mettiamo i The Pains of Being Pure at Heart, con aggiunta di muscoli (e gain e fuzz), come in “Swirl” o “Drown” (che, per inciso, sono titoli talmente shoegaze da sembrare parodie di titoli shoegaze), o ancor più “Dishwasher”, che è in realtà una semplice variazione sul tema della prima, o ancor più “Easy”, che confrontare con l’attacco della “Stay Alive” dei PBPH smaschera piuttosto clamorosamente. A volte emerge il suono di una chitarra acustica (“0700”), a volte le melodie e i riff su cui si costruiscono luccicano più di altri (“Weekends”).

La brevità del disco evita la saturazione, ma d’altronde è difficile trovare tra i nove pezzi un momento di stanca, isolato piuttosto nella coda noise di qualche pezzo (“Summer 3D”). Aiutano a non annoiarsi, anche, i paradigmi piuttosto antitetici a cui rimandano le due voci: punkettosa e sgraziata quella maschile, ferma e geometrica, come se uscisse da un disco indie pop svedese qualsiasi, quella femminile. L'incrocio è fatale, in fondo al disco, in “Another Day”, il cui riffettone emo in coda potrebbe, in effetti, continuare per sempre. Che è poi il titolo del disco. Ambizioso. Ma se ogni anno offrisse un disco shoegaze così, perché no: sarebbe possibile.

V Voti

Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 2 voti.
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cnmarcy 6,5/10

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