The Pains of Being Pure At Heart
Belong
Lesordio dei Pains of Being Pure at Heart è stato in un certo senso un punto darrivo e di partenza: primo, perché ha condensato in modo definitivo tutta lestetica indie/twee pop degli anni Zero, connotata da freschezza melodica e da arrangiamenti squillanti ed elettrici, nel classico stile jingle-jangle, sfumati dietro una caratteristica patina di feedback; secondo, perché ha rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per varie band successive (se si analizzano le recensioni di dischi di questo genere dal 2009 in poi si troverà quasi sempre il loro nome), vedi Wild Nothing, Minks e altre ancora.
La situazione quindi a tre anni di distanza dal personale debutto vedeva il sound della band riproposto in numerose forme, tanto da non da costituire più una novità (è vero che gli stessi Pains facevano riferimento a una materia indie-pop già ampiamente consolidata, ma nel 2008 rappresentavano comunque qualcosa di nuovo e sorprendente). I quattro ragazzi di New York hanno perciò ragionato a lungo circa la strada da intraprendere nellatteso sophomore, e lispirazione decisiva è arrivata sicuramente alla notizia di dover collaborare con due mostri sacri della produzione discografica: Flood e Alan Moulder. Lavorare con gente che ha prodotto capolavori come Siamese Dream o Mellon Collie And The Infinite Sadness, per non parlare delle collaborazioni con My Bloody Valentine, Ride, Jesus And Mary Chain e tantissimi altri, senza ombra di dubbio ti fa fare un enorme balzo in avanti in termini di ambizioni e aspirazioni (facile immaginare il timido Berman che già si vede nellOlimpo insieme al Billy Corgan dei tempi migliori!).
E infatti già dalle prime note della title-track si nota un corposo cambio di stile, che nel corso del disco seguirà principalmente due strade di ampliamento del sound standard della band: 1) da un lato il potenziamento delle strutture chitarristiche attraverso linserimento di distorsioni e riff grunge targati Smashing Pumpkins e 2) dallaltro, uno spazio inedito riservato ai synth, che in vari casi conferiscono un gusto tipicamente anni 80 alle composizioni. In Belong, insomma, ci troviamo di fronte a una band che prende maggiore coscienza delle proprie capacità a livello di arrangiamenti e di melodie e cura con diligente attenzione i dettagli, avventurandosi con più frequenza in trascinanti intermezzi e code strumentali al limite del wall of sound anthemico. E se forse si perde qualcosina in immediatezza melodica, non si può parlare tuttavia di snaturamento del sound originario, ma semplicemente di uno spostamento di baricentro, da un ingenuo e acerbo twee-pop a un più maturo e consapevole connubio di varie influenze dallo spettro più ampio.
E così, se da una parte la già citata Belong (con una progressione strumentale che sembra uscita da Siamese Dream), lincedere spedito, con echi noise-pop di inizio anni Novanta, di Heavens Gonna Happen Now e il punk-pop adolescenziale (e bruttino, a dir la verità) di Girls Of 1000 Dreams rappresentano una volontà nemmeno troppo celata di conferire toni più universali a un genere da cameretta come lindie-pop, dallaltra emergono ottime riproposizioni di stilemi post punk/synth pop, come avviene nellasettico singolo Heart In Your Heartbreak, nellesplosione di tastiere dai mille colori di The Body, o nellirresistibile slancio pop di My Terrible Friend (con ritornello sintetico in stile OMD!). Anne With An E, ballata à la Belle & Sebastian dalle atmosfere evanescenti, e la sognante ma solida Even In Dreams sono i punti dal più spiccato umore malinconico e disincantato, mentre il duo finale Too Tough Strange propone delle entusiasmanti cavalcate shoegaze che chiudono in bellezza il disco.
Un disco che presenta sì qualche momento di stanchezza melodica (laddove nel debutto era tutto un susseguirsi di melodie dallimpatto immediato), ma che comunque ci consegna il quadro di una band in evoluzione e per nulla ferma. In attesa di un disco più definitivo, prendiamo con piacere.
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