Black Mountain
Wilderness Heart
Dei canadesi Black Mountain si è sproloquiato a dovere.
Insigniti contro il loro volere della corona di salvatori del rock odierno, questi tre ragazzotti coadiuvati da una gentil donzella, tra un concerto ed una registrazione, si dedicano al recupero di tossicodipendenti tramite l’associazione Insite . Andando più a fondo sulla questione non si tratta di un vero e proprio recupero, ma più precisamente della gestione e cura di un luogo in cui i tossicodipendenti trovano siringhe sterili e luoghi appartati dove farsi cullare dalle braccia calde ed asfissianti dell’eroina, col ringraziamento speciale dell’ACE Gentile, che custodiva gelosamente una buona fetta di mercato di acquirenti di candeggina disinfettante a prezzi stracciati (se il primo disco dei Nirvana si chiamava Bleach ci sarà un motivo). Insomma, un folto gruppetto di musicisti, artisti e semplici amici conosciuti al bar che gravitano attorno alla comune 2.0 chiamata Black Mountain Army.
Storie dai contorni mitologici a cui la stampa si è dedicata al ricamo di un uncinetto, che i Black Mountain hanno provveduto tempestivamente a sciogliere, demistificando le leggende metropolitane messe in giro da sei copisti in cerca d’editore.
Delle scorribande folkpopshoegazeindiestracciaballe del leader Stephen McBean, ci siamo masturbati in sogni erotici indie durante tutto lo scorso anno, sotto lo pseudonimo di Pink Mountaintops.
Ad oggi il main project Black Mountain torna prepotente ed in forma smagliante, per dare un sonoro calcio in culo hard rock a tutti gli occhialuti blogger del pianeta terra, sputando fuori il lavoro più diretto, corposo e che centra senza indugi la bocca dello stomaco. E voi barbosi già starete blaterando davanti lo schermo “Eh ma io su Pitchfork ho letto con faticosa e imprecisa traduzione istantanea, che Wilderness Heart è un disco poco ispirato, noioso, e che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto in 60 anni di rock”. Il sottoscritto vi risponde che se il rock odierno è in mano ad Andrew Stockdale e i suoi pompaticci e rimediati Wolfmother, bè che si facciano fottere dal barbone irsuto di Stephen, che sa ancora come far ringhiare le sei corde a dovere e bilanciare con cura arcaica la materia folk.
Con Wilderness Heart, i Black Mountain si svestono di tutti i fronzoli prog/psichedelici di In The Future, e puntano dritto alla carne, virando la propria caratura sonora verso l’hard rock secco, trascinante, eppur maestoso nella sua eleganza.
Da questi presupposti fioriscono la cavalcata adrenalinica Let Spirits Ride e le montagne russe hard blues di Rollercoaster. Si diramano i saliscendi vertiginosi sulle colline del folk pastorale di Buried By The Blues e The Space Of Your Mind. L’incipit The Hair Song è sorretto dal classico riff poderoso e raffinato di scuola 70’s, su cui si stagliano tastiere dal vago retrogusto garage 60’s ed assoli impennati sulla ruota anteriore della tradizione hard.
Insomma, c’è ben poco da aggiungere, perché chi ama almeno un briciolo di suono elettrizzante di una sei corde, non può fare a meno di una band come i Black Mountain.
È grazie anche a loro, che oggi, il rock conserva ancora uno smalto invdiabile.
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