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R Recensione

5/10

Meganoidi

Delirio Experience

Giusto a ricordarci quanto possa essere implacabile lo scorrere del tempo che passa, quest’anno i Meganoidi festeggeranno il loro primo ventennale. Incredibile dictu. Venti non è solo un numero rotondo: è un numero pesante, denso, in altri termini generazionale. Generazionale, difatti, vuole anche essere il disco che hanno approntato Luca Guercio e Davide Di Muzio tra il marzo e il luglio del 2017, nell’ambizioso duplice tentativo di rivitalizzare una produzione studio a corrente alterna (ferma, con l’eccezione del live “In Concerto” del 2014, dal discreto “Welcome In Disagio” del 2012) e dar vita ad un nucleo essenziale di brani rappresentativi dello stile della band – e di conseguenza, si capisce, da ideale introduzione per chi vi si avvicina per la prima volta. È nel semplice atto descrittivo che risalta la prima smagliatura logica: seppur non prolificissima, la carriera dei Meganoidi si è infatti distinta per il susseguirsi di numerose fasi stilistiche fra loro divergenti, quando non contrapposte. “Delirio Experience” è un nuovo “Into The Darkness, Into The Moda”? Si avvicina alla fase interlocutoria di “Outside The Loop, Stupendo Sensation”, oppure richiama le coraggiose – ed ancora ineguagliate – gemmazioni strumentali dell’EP “And Then We Met Impero”? Vi si sente di più la wave catacombale di “Granvanoeli”, il dinamico post-core di “Al Posto Del Fuoco” o la nervosa introspezione di “Welcome In Disagio”?

Non cercate risposte a queste domande in “Delirio Experience”, perché non le troverete. Anzi, se c’è qualcosa per cui il disco si fa ricordare è precisamente la costante elusione delle questioni teoriche fondamentali sottese ad una celebrazione del genere (cosa ha fatto la band, a che punto è oggi, che direzioni potrà intraprendere in futuro). Il principio che muove questi Meganoidi – al punto da spingerli a, cito, “comunicare nel modo più diretto il nostro stato d’animo” – è quello della leggerezza. Così riflette Di Muzio, quasi tangenzialmente, in “Gocce”, la pedante e schematica semiballata di metà tracklist (il pianoforte è suonato dall’ospite Filippo Cuomo Ulloa): “Perché la leggerezza non è grave / E penso”. Certo, sono versi estrapolati dal loro contesto e quindi non esattamente fedeli al ragionamento analitico che stiamo perseguendo di seguito ma, a loro modo, rimangono comunque illuminanti. No, la leggerezza non è grave, grazie al cielo: ma Calvino ci insegna che esiste leggerezza e leggerezza e che saperla praticare, in ogni caso, non è cosa da tutti. “Delirio Experience”, purtroppo, è leggero nel senso deteriore del termine: passa senza fermarsi, è volatile nella sostanza ed esageratamente facile nelle soluzioni, si dimentica l’istante dopo averlo ascoltato.

Antologico, si capisce, “Delirio Experience” non lo è nemmeno lontanamente. È, piuttosto, un disco un po’ raffazzonato, risicato nel minutaggio e nelle idee ma dalla polarità ben definita, che tende alla costante esaltazione del lato più accomodante, pop e fumettoso dei Meganoidi: un lavoro che rinuncia in partenza ad ogni ricerca lirica e sonora, scegliendo di accomodarsi in un pop rock mediano, manieristico e privo di rischi. L’andazzo è chiarissimo sin dall’apertura, con la tromba di “Accade Di Là” che sembra rifare il verso a quella di “Zeta Reticoli” (ma senza possedere la sua stessa profondità): seguono poi, tra le altre, il canonico alt rock di “Tutto È Fuori Controllo” (con il caratteristico basso pulsante di Riccardo “Jacco” Armeni), la strimpellata bluesy di “Respirare In Orbita” (vaghe infiltrazioni post-grunge nei chiaroscuri del ritornello) e le anthemiche scansioni punk di “Fra 20 Anni Fa” (“Arrivederci a fra vent’anni fa / Sempre uguale / Con un’identità rimessa a fuoco / Tutto sarà normale / Il cuore batterà per poco / In modo strano / Con due colpi forti ed uno / Cordialmente impercettibile”). Per ricevere una scossa, per quanto minima, occorre aspettare la title track che, tra chitarrone in levare e refrain robusi, riporta realmente la lancetta dell’orologio indietro di vent’anni: un sorriso lo strappa anche il pop punk più Nineties dei Nineties di “Bye Bye Presente” (con chiusura tirata per tromba e chitarre), ma è la smorfia di chi rimembra un tempo che sembrava obliato per sempre.  

Ad onore del vero, bisogna ammettere che il gruppo cerca l’empatia con l’ascoltatore fino alla fine, raccontandosi nel mezzo del ciclone antropologico della paternità (le ruffiane speziature reggae dell’elementare “Nana Nanna”) e regalando in coda un’altra delicata ballata acustica, la toccante “Rimaniamo Sempre Qui” (“Dobbiamo parlare io e te / Siediti un attimo / Mi puoi capire bene senza / Nemmeno una parola / I tuoi sorrisi, sono mille parole”). Verosimilmente, chi avrà bisogno di sentirsi parlare da quella che un tempo fu la sua band del cuore accetterà, di buon grado, di passare sopra ad un disco poco riuscito. Tutti gli altri, compreso chi scrive, faranno più fatica a contrastare la velenosa vulgata che vorrebbe i Meganoidi artisticamente irrilevanti da anni.

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