R Recensione

6,5/10

John Zorn

Valentine's Day

Un indizio non fa una prova, ma instilla il sospetto. Così, se alla maggioranza la fuitina impro che John Zorn registrò con Thurston Moore l’anno scorso (“@”) era sembrata un bel rinverdire i fasti passati – nello specifico, alcune fra le più urticanti prove incise in duo con Fred Frith negli anni ’90, “The Art Of Memory” sugli scudi –, già qualcuno era riuscito a fiutare l’usta di una nuova, massiccia esplorazione delle potenzialità della chitarra elettrica, incastrata in assetti combinatori tutti da scoprire. Detto, fatto. L’occasione balena subitamente con un “Valentine’s Day” che – mutatis mutandis – altro non è che la rilettura, per mano di un meraviglioso ed inedito power trio (Marc Ribot alla chitarra, Trevor Dunn al basso, Tyshawn Sorey dietro le pelli), delle dodici devastanti strumentali di “Enigmata”, uscito nel giugno 2011 e suonato dai soli Ribot e Dunn. Sotto tali premesse, si potrebbe interpretare il focus più nella ritmica addizionale, che nel solismo della sei corde: basta tuttavia un ascolto per ricredersi.

Col noise chitarristico, è noto, Zorn si è sempre sporcato le mani: sovente classiche, acustiche ed elettriche sono state portate a confrontarsi con i propri limiti stilistici e strutturali, oltre il genere di prossima appartenenza, a tratti semplicemente snaturate, altrove sigillate in quell’incomunicabilità che è preludio avanguardistico alla riscrittura dei codici convenzionali di trasmissione semantica. La chitarra diventava così l’arma terroristica di Eugene Chadbourne, la sfinge del Bill Frisell versione Naked City, la bipolare cartina al tornasole di Robert Quine, la dea panteistica ed autofaga di “The Book Of Heads”. La scelta di Ribot, il cui curriculum lo porta a prestarsi più alla costruzione che alla distruzione, e che è dotato di un sopraffino tocco pentatonico, acquista allora un senso emblematico: possa uno strumentista canonico incendiare il canone. Le colt cantano da subito il massacro, con una “Potions And Poisons” che sembra Moonchild annegato in una salsa post-core, “Fireworks” che è free jazz fuori controllo con matematico interplay centrale, gli stantuffi Borbetomagus di “Black Mirror”, il sordido blues-core al macello di “Blind Owl & Buckwheats”, l’hard rock sgraziato e deforme di “And The Clouds Drift By”, il monologo apocalittico di “Before I Saw The Spirit Of A Child”, gli Slobber Pup al risparmio di “UX” (noise-klezmer modale?)…

Finisce che un disco così apparentemente monolitico riveli una quantità sbalorditiva di sfumature e si possa permettere, tra una cosa e l’altra, di infilare in mezzo anche una “The Voynich Mandala” che piega il capo dello Gnostic Trio (delicate sequenze dispari di arpeggi, contrafforte di tom, basso a seguire) ad un nuovo padrone, tutto schizofrenia ed impeto. Qualcosa che si vorrebbe sentire più spesso, più a lungo.

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