Ivo Perelman, Joe Morris & Balázs Pándi
One
"Ivo Perelman da San Paolo è uno dei numerosi santoni del free jazz contemporaneo. Uno dei maestri riconosciuti del sassofono tenore, strumento cardine che alimenta le evoluzioni più spericolate del genere sin dai tempi in cui ci soffiava dentro l'anima John Coltrane.
Sono già al punto cruciale: l'anima. Quella che per lunghi tratti sembra mancare a questo sfoggio di libertà in musica. Non pretendevo nulla di rivoluzionario (dopo For Alto è stato difficile trovare intuizioni veramente esplosive anche in ambito free jazz, e sono passati quarant'anni - ok, esagero un po'), ma forse era lecito attendersi qualcosa di più coraggioso. Il problema è che questo lavoro non è propriamente emozionante o gravido di idee, non cava molto dai fantasmi assiepati fra i nostri neuroni, non butta nessuna bomba al napalm, non lancia fulmini nei nostri occhi annebbiati.
Il disco, inciso in trio con Balázs Pándi, batterista di origini ungheresi, e il bassista Joe Morris, consta di sei brani che di fatto cristallizzano il flusso del free jazz.
Si inchinano ai suoi dogmi, ovvero (paradossalmente) alla sua libertà formale assoluta, con il batterista che sprigiona giri e rigiri sui piatti come fosse sotto l'effetto di qualche fungo, Morris che schiaffeggia il basso elettrico (con cui si cimenta per la prima volta) e Perelman che in qualche modo si traveste da sacerdote e celebra le nozze d'oro dell'ultima utopia jazz.
Nessun delirio orgiastico, in ogni caso. Questa è una festa studiata in laboratorio e sin troppo attenta quando segue le orme lasciate dai grandi della musica libera. Perelman si attiene ai codici in vigore, e questo è il limite che accomuna molti grandi del jazz contemporaneo, anche quelli che appaiono più spregiudicati: frantuma (per l'ennesima volta) ogni ordine tradizionale, ma di fatto è la solita frittata; si dedica con tutto il corpo al dis-ordine, anche con classe e una certa personalità (il suo sassofono vomita onde enormi, assembla rumori su rumori, dissonanze ai limiti del sopportabile per chi è poco avvezzo al genere), ma senza entusiasmare. Senza cercare sé stesso: la triste verità è che la musica più svalvolata del mondo, da tempo, è diventata a sua volta una gabbia.
Non volevo sdoganare il temine, ma forse mi tocca farlo: questo sembra un lavoro discreto ma scolastico, buono per chi consuma dosi importanti di free anche a colazione (io l'ho fatto), ma che forse dirà poco o nulla a chi non cerca ancora in questo tipo di musica una scossa elettrica.
Dimmi la tua, Marco."
"Due terzi della formazione che suona attivamente su One è stata, recentemente, protagonista di Black Aces, altra uscita chiave della RareNoise, a nome Slobber Pup. Quell'indefinito ed indefinibile marasma impro-grind che si agitava inquieto, per oltre un'ora, si ripropone qui, senza sostanziali variazioni. Manca l'organetto di Jamie Saft, ci sono risparmiate le mirabolanti contorsioni modali della chitarra di Joe Morris, che sostituisce al basso Trevor Dunn, ma il demonio ritmico è sempre lui, il magiaro Balázs, sultano dell'asimmetria e, passando al rema, il sax tenore di Ivo Perelman è il nuovo elemento che trascina nello scompiglio le strutture dei sodali. La recensione potrebbe concludersi così. Hai utilizzato un aggettivo che calza alla perfezione, scolastico. Il che mi fa cogliere la palla al balzo, per parlare di una dicotomia che, nelle arti e nella vita, considero umilmente fondamentale. L'osservazione del mondo che mi circonda ed il riflesso delle attività altrui mi ha portato a concludere che esistano due tipi di bravura: quella che si attiene alle regole, e quella che le regole le piega, le riplasma, le trasforma. A me attira maggiormente quest'ultima, che è bizzarra ed incostante, lunatica e inaffidabile, performativa e tellurica. Dappertutto viene preferita la prima, che garantisce continuità, ma soffoca l'ingegno, ed impedisce lo sviluppo di una seria autonomia. Se si eccettuano la frenesia colemaniana di Freedom (costruzione speculare a quelle dello storico Song X, ma senza la glassa della sei corde di Pat Metheny) e il bel dialogo tra Morris e Pándi in coda a Universal Truth (uno dei rarissimi momenti, non a caso, in cui tace l'ottone), di One non rimane assolutamente nulla da ricordare. Un po' come chi torna a casa da un esame di letteratura, con il massimo dei voti nel libretto ed una miscellanea di autorevoli giudizi critici a sovrapporsi al proprio gusto. Tutto sommato, semplice. In fin dei conti, ben poco coraggioso.
Tweet