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R Recensione

6,5/10

Alcest

Spiritual Instinct

A Stéphane Paut e compagni, in retrospettiva, è andata bene. In ottemperanza alla legge non scritta secondo cui, eccettuato un manipolo di eletti per cui non vale il normale metro di giudizio, ogni artista è condannato a ritornare prima o poi sui propri passi, c’è chi già al sophomore decide di rifare l’esordio e chi, come gli Alcest, aspetta una fase più matura della propria carriera, in questo caso il quinto capitolo lungo. Da noi all’epoca non recensito, il buon “Kodama” (2016) rimasticava – con coscienza e in un tutto coerente – dieci intensi anni di progressive esplorazioni sonore sul crinale fra dark wave, shoegaze e (post) black metal, voltando le spalle allo sperimentalismo etereo di uno “Shelter” (2014) che, all’epoca, sembrava far presagire il definitivo allontanamento di Neige e Winterhalter dalle proprie radici pesanti. A condizionare l’attività successiva, invece, è stato il peso di dover tenere la barra dritta in una direzione completamente nuova: contrordine, compagni. È questa la comfort zone degli Alcest: il perimetro di uno spazio sicuro in cui torna a muoversi anche il nuovo “Spiritual Instinct” (primo lavoro ad uscire per Nuclear Blast).

A livello di contenuti musicali e di loro espressione emozionale, fra tutti è questo il disco che con più forza riafferma l’identità del duo transalpino, anche nel ricondurre a controllate variazioni su tema quelle che nel recente passato sarebbero state ancora avvertite come deviazioni stilistiche – esemplari il goth rock novantiano del riuscito singolo “Sapphire”, con Neige che nelle strofe modella una sognante melodia curiosamente vicina alla Dido di “Thank You”, o la seconda metà della ruvida e viscerale “L’Île Des Morts”, un imponente muro di suono solcato da spasmi elettronici e percussioni non convenzionali. Una sintesi capace di reggere sul breve e lungo periodo richiede un songwriting, se non brillante, perlomeno all’altezza della situazione, impresa non sempre riuscita agli Alcest dell’ultimo lustro: in “Spiritual Instinct”, invece, la penna regge alle pressioni, regalando episodi di grande crossover, su tutti l’apertura “Les Jardins De Minuit” (inaugurazione filtrata da prismi dark wave, decollo black-gaze in qualche modo vicino a certi Bosse-de-nage, stabilizzazione su di un mid zanzaroso interpretato su doppio registro clean-scream) e la mediana “Le Miroir” (una ieratica invocazione post rock in crescendo che si arresta sul ciglio del burrone).

Naturalmente, questo approccio più convenzionale, se da un lato lima al ribasso il margine d’errore, dall’altro svuota di significato ogni – finanche inconscia ed imperfetta – tensione all’imprevedibilità, producendo esattamente ciò che ci si aspetta di ascoltare (il buono, ma canonico, singolo “Protection”). Non è detto sia un male, ma attenzione: prendere posizione in merito presuppone una rinuncia alla neutralità di cui lo stesso “Spiritual Instinct” si fa idealmente garante.

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