Zita Swoon Group
Wait For Me
Siccome ho uno zio elettricista, e in un paio di occasioni l'ho visto anche all'opera, qualcosa di impianti, circuiti e cavi elettrici ci capirò, no? E poichè sono nato e cresciuto a cento metri da una delle più grandi fabbriche di automobili del mondo, qualcosa di motori avrò imparato, no? E se domani decidessi di prendere un aereo per il Mississipi insieme alla mia vecchia imitazione Gibson-Les Paul, mi trasformerei in un bluesman di razza, no?
Ecco, no. Ma proprio no. E questo valga come avvertimento generale. Prima che europei e americani in cerca di ispirazione e in lotta perenne contro l'apatia imperante invadano il sud del mondo rischiando - ancora una volta - di "fare nostro ciò che nostro non è", fermiamoli. O almeno mettiamo dei paletti, prima che causino un anschluss culturale irreversibile. Che va bene il meticciato e lo scambio di tradizioni, ma il timore - conoscendo il concetto distorto di "scambio" tra nord e sud del mondo - è che tra qualche anno rischiamo di ritrovarci indie-bands chiuse in cantina a trafficare con 'ngoni e balafon e musicisti africani ridotti a coristi in abiti multicolore.
Per mettere in atto operazioni culturali di questo tipo sono necessarie caratteristiche che nell'uomo moderno sono sempre più rare: discrezione, intelligenza, umiltà, apertura mentale, disponibilità, rispetto. Si tratta di smettere di "andare a prendere" e anche di "andare a portare", e magari cominciare ad instaurare un rapporto di scambio equo. Equo e basta, possibilmente, anche perchè nessuno ha mai saputo spiegarmi come possa un commercio essere "solidale" e "equo" allo stesso tempo. La beneficenza e gli aiuti sono solidali, il commercio è sufficente che sia equo. E se fosse stato equo fin dall'inizio adesso non ci sarebbe bisogno di tutta questa "solidarietà" sciacqua-coscienze.
Negli ultimi anni gli scambi musicali tra Africa e "mondo occidentale" sono diventati sempre più intensi: abbiamo "conquistato" il Mali, ci siamo inventati l'afro-pop, abbiamo ascoltato porcherie tipo Vampire Weekend e seguito con apprensione le infatuazioni world di Damon Albarn. Abbiamo anche scoperto - però - che l'Africa ha una storia musicale eterogenea e interessante, e un presente fatto di vecchi leoni come di giovani promesse. Per questo motivo quando arrivano suoni da quella parte del mondo è sempre bene tendere le orecchie. Ultimo (o quasi) esempio in ordine cronologico è quello che vede Stef Kamil Carlens (co-fondatore dei dEUS e leader degli indie-rockers belgi Zita Swoon) sulle orme di Damon Albarn (o dello Hugo Race di qualche anno fa, o ancora della recente visita di Bertrand Cantat in casa Amadou & Mariam): Carlens ha trascorso un lungo periodo in Burkina Faso a stretto contatto con i musicisti Awa Démé (cantante) e Mamadou Diabaté Kibié (balafonista), e il risultato di questo "scambio" e questo diario di viaggio intitolato "Wait for Me".
Nonostante la resa finale sia piacevole nei momenti di sovrapposizione del cantato rock di Carlens sulle basi percussive di Diabaté ("Sababu", "Tasuma Ji") e in qualche passaggio strumentale ("Ko Benna Waati"), l'impressione è che il suo creatore abbia tentato di calcare la mano sull'elemento "etnico", generando alcuni momenti thelionsleepstonight che sanno di post-colonialismo ("A Sera, A Waara") e un senso generale di superficialità ("Taamala Fisa", "Sia Slide"). E' difficile stabilire se questa sensazione (la stessa provata - sebbene in quantità inferiore - ascoltando il progetto Dirtmusic qualche anno fa) sia data da una fretta/carenza compositiva o semplicemente dalla matrice pop che fa da collante tra i vari elementi, ma tant'è. E dispiace, perchè dal vivo il risultato sembrerebbe di gran lunga migliore, e la voce di Awa Démé alle prese con i ritmi simil-Manu Chao di "Taare" o con le forme libere di "Ala Lon Man Di" è semplicemente spaventosa per intensità, forza e bellezza.
Ok dai: prendiamoci la voce della Démé in volo su "A Ni Baara" e torniamocene subito a casa, come al solito.
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