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R Recensione

7,5/10

Flaga

Flaga: Book Of Angels, Vol. 27

Se fossi un tecnico del suono, impegnerei volentieri lo spazio bianco di questa pagina per spiegarvi perché, tra tutte le uscite del canzoniere Book Of Angels (prossimo, peraltro, alla sua conclusione: che il capitolo definitivo sia il trentesimo?), quelle che preferisca siano la ventisettesima e la ventottesima. Attenzione: non mi riferisco solo alla qualità dei brani o alla particolare rilettura che il gruppo in questione ha deciso di farne – giacché i primi volumi tendono ad essere nettamente migliori e, come vedremo a breve, “Andras” rimane comunque un capitolo minore, nonostante la discesa in campo del Nova Express Quintet. Ho in mente, piuttosto, l’alchimia strumentale: come i musicisti interagiscono fra di loro, come si viene a formare lo spazio di dialogo interpersonale aperto su di una composizione già scritta e, soprattutto, con quali modalità il risultato del loro incontro-scontro vengono fissate su disco. Sarà utile, di seguito, aprire e chiudere una parentesi: se, solitamente, dietro il bancone del mixer per Tzadik siede il fidato Marc Urselli, in occasione della take buona-la-prima di “Flaga” – ma come fanno? – è stato scelto Jeff Cook. Anche per questo, un’esperienza di ascolto ravvicinato come quella che ha interessato il sottoscritto può rivelarsi, sotto molti aspetti, illuminante.

Partiamo, allora, con il trio delle meraviglie Craig Taborn (piano), Christian McBride (basso) e Tyshawn Sorey (batteria), di gran lunga la migliore scoperta zorniana dell’ultimo quinquennio assieme, ovviamente, a Simulacrum (in alto le antenne, perché torneremo presto a parlare sia di “The Painted Bird” che di “49 Acts Of Unspeakable Depravity In The Abominable Life And Times Of Gilles De Rais”). Il primo, acclamatissimo musicista della Downtown, dopo essere comparso come guest in vecchi lavori di Susie Ibarra, Roberto Rodriguez, Wadada Leo Smith e Okkyung Lee, si prepara ad inaugurare le danze da band leader. Per il secondo, uno dei turnisti più noti e richiesti della sua generazione (il curriculum mette spavento), si tratta dell’esordio assoluto su Tzadik. Sorey è, per gli appassionati dell’inner circle zorniano, il richiamo più evidente: è il tocco dinamico ed esplosivo di recenti uscite come “Valentine’s Day” (per gli Asmodeus di Marc Ribot), “Hen To Pan” e “In The Hall Of Mirrors”, oltre che motore dei Blue Buddha. Una presentazione di tutto rispetto, non c’è che dire.

Ed allora, in che modo si è reso omaggio a Flaga, questo misconosciuto spirito scandinavo di cui vi sono tracce poco più che sparute persino nel Dictionnaire Infernal? Strano a dirsi, data la collocazione geografica della fonte d’ispirazione, ma a prevalere, nelle dinamiche degli otto pezzi (“Talmai” è resa in una duplice take: segnaliamo la seconda, un autentico orgasmo ritmico che irrompe con la forza di una granata sulla filiforme ragnatela crepuscolare di Taborn), è piuttosto la negritudine dei suoi esecutori, che da un lato si esplica in millimetrici ingranaggi di puro groove (“Katzfiel” è un klezmer che abbina, con naturalezza fuori dal comune, ballabilità e atonalità) e, dall’altro, si accompagna ad una resa melodica assolutamente sopraffina, una sintesi superba della plurivocità di Uri Caine, dell’eclettismo di Jamie Saft (“Machnia”, la cui head è stretta in un interplay impro a briglia sciolta, sembra proprio un ibrido mozzafiato tra “Astaroth” e “Moloch”: per tacere di “Agbas”, approcciata con la femminilità appuntita di una Sylvie Courvoisier) e del recente Medeski, quello meno impervio (il passo di gran classe di “Peliel”). Forse in virtù di queste peculiarità, il mastering evidenzia come non mai l’intreccio vorticoso di McBride e Sorey, sino a far percepire ogni colpo, ogni vibrazione: le complesse armonie di Taborn, d’altro canto, sciolte e diluite in ottundenti fraseggi bebop, si fanno largo senza colpo ferire, imprimendosi immediatamente nella memoria dell’ascoltatore. È pur sempre piano jazz, è vero, ma attenzione: quando c’è da menare le mani Flaga rivela tutta la sua duplicità ferina. Guai a sottovalutare le brutali disarticolazioni free jazz di “Rogziel”, gli archi stridenti e gli scalpiccii di “Harbonah” o il serrato cubo di Rubik di “Shoftiel” che, alla mesta melodia portante, oppone volteggi di fisicità straripante.  

Consiglio spassionato: se la recensione vi ha convinto, preparatevi ad un lungo assedio. Il disco, uscito a febbraio, ancora non ne vuole sapere di scollarsi dall’impianto del sottoscritto… 

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