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R Recensione

6/10

John Zorn

A Dreamers Christmas

Non chiamatela senilità acuta: è una scusa sin troppo banale. Nei suoi quarant’anni di carriera “ufficiale”, John Zorn ha rivisitato la colonna sonora di James Bond e quella di “Milano odia: la polizia non può sparare”, inserito riferimenti a Napalm Death e musica classica, suonato il rumorismo prebellico dei futuristi e scardinato, dall’interno, ogni convenzione possibile ed immaginabile. E che dire della giustificazione di chi lo vorrebbe esausto dal perpetuo sforzo compositivo ed in ricerca, finalmente, di un’oasi di serenità per sé ed i propri musicisti, con il solo scopo di staccare la spina e concedersi un po’ di divertimento? Come se non avesse già fatto altro per tutta la sua vita: ammiccamenti, scherzi, sfottò, caricature, prese per il culo non si contano sulle dita di sei mani, all’interno della sterminata discografia a suo nome. Il che, se ci pensiamo bene, è un altro, evidente, spregiudicato segnale di iconoclastia. Che cos’è, dunque, “A Dreamers’ Christmas”, se non quello che davvero appare, ossia la reinterpretazione – a marca The Dreamers, il solito cerchio di fedelissimi zorniani che già ampiamente conosciamo – di alcuni standard natalizi?

La citazione s’impone: c’è tutto, non manca niente. Da “Winter Wonderland” a “Santa Claus Is Coming To Town”, da “Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow!” a “Have Yourself A Merry Little Christmas”, la playlist da centro commerciale ricoperto di finta neve ed avvoltolato nelle luminarie è completa. L’operazione farà storcere il naso, sulla carta, solo chi non ha abbastanza dimestichezza con le bizzarrie del sassofonista newyorchese. Gli altri potrebbero passare oltre: la scelta più saggia. Se, infatti, ci si fermasse per un attimo ad ascoltare questa collezione di canzoni non autografe, ci si troverebbe davanti – ancora una volta – canzoni non autografe. Striminzite ed irrilevanti ulteriori osservazioni a margine, che non scadano nella banalità. Conta davvero poco che la chitarra sia di Marc Ribot e non di un ambulante qualsiasi, che surf, jazz e musique concrète si compenetrino senza sforzo visibile, o che la produzione magistrale faccia risaltare, as usual, la perfetta esecuzione tecnica del materiale. Brani di Natale sono, brani di Natale rimangono. Una pecca mortale per chi, appena dieci anni fa, avrebbe dato fuoco al vischio e sfregiato i festoni tradizionali con l’acido solforico dell’autocoscienza di una totale libertà espressiva.

In un secondo momento, ed era peraltro inevitabile che saltasse fuori, ci si mette di traverso lo zampino del diavolo. All'inizio di “Santa Claus Is Coming To Town” l’acustica è pizzicata a forza, le biglie rotolano come fossero percussioni non convenzionali, lo swing pianistico cede il passo all’istrione Patton che, da bravo fancazzista, bisbiglia in coda le due strofe di rito e poi se ne va. Un indizio un po’ ingombrante da non prendere in considerazione, ad onor del vero. Sta a vedere che, per l’ennesima volta, Zorn è riuscito a menare tutti per il naso? Perché un gruppo di sorridenti signori ebrei di mezza età, al termine di una “Christmas Song” interpretata col piglio di un crooner impomatato e stucchevole (al microfono sempre il patron della Ipecac), dovrebbe augurare in coro un buon Natale all’ascoltatore di turno? Non ricordo, inoltre, significative variazioni su “Magical Sliegh Ride” che ne abbiano trasformato l’asse in maniera tale da farla sembrare un inedito di Dick Dale o, in alternativa, una stordente outtake da “The Gift”. Difatti non esistono: il brano è originale. Panico. Che fare? Cosa pensare? Accodarsi al partito della stroncatura spontanea, o cercare di salvare l’indifendibile, ricamandoci sopra usurati voli pindarici di circostanza?

Molti rifiuteranno le dietrologie, pensando che farne anche in questa circostanza, su un disco formalmente e contenutisticamente così banale, sia poco meno che assurdo. Non potrei mai dar loro torto. Eppure, non posso nemmeno ignorare quel pressante campanello d’allarme: l’abbinamento Zorn-babbucce di lana non funzionerebbe nemmeno in un altro mondo. Nel dubbio, la non scelta: sospensione del giudizio, sufficienza di rito e palla che torna a centrocampo.

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Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Mirko Diamanti (ha votato 6 questo disco) alle 9:51 del 20 dicembre 2011 ha scritto:

discreto

Sufficienza piena e non di rito per un disco ben suonato, ma privo di spunti. Il classico disco che già dal concepimento è un perfetto 6 di piacevole indifferenza.

Emiliano (ha votato 5 questo disco) alle 19:24 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Abbastanza inutile questo dischetto, ma non credo sia stato progettato con grandi aspettative dietro. Mezzo voto in meno ché certi passi falsi si perdonano a tutti meno ai propri beniamini.