V Video

R Recensione

7/10

Zeus!

Opera

Poniamo, per un attimo, di essere viandanti sperduti nel mezzo di un contado (troppo poco), di un principato, forse (osa di più), di un reame, allora (una parola!), di un impero. Non siamo noi a colonizzare quelle terre: sono quelle terre che hanno colonizzato noi. È più logico, non trovate? Forse no. Ed allora diamo un nome, a questo impero, l’impero della mente e dei cheeseburger, della Rifle Association e dell’hardcore punk, così: America. Neutro declinante femminile. Ora va meglio. Ma ritorniamo ai nostri viandanti. Non portano nulla con sé: né attrezzi da corvèe, né documenti d’identità, né segni particolari e distintivi. Eppure l’impero, per così dire, li accoglie. Sono loro che, umili barbuti in controtendenza, fagocitano per primi quel Golia. Non v’è traccia di mutuo riconoscimento o di segreto patto epidermico: solo, per così dire, rispetto reciproco, esteriore. Questi viandanti, dicevamo, sono sorpresi ma non troppo, sicuramente galvanizzati dalla nuova posizione: e va a finire che, con la stessa incomprensibile fluidità, un dio greco si transustanzi in miccia per scadenti miniciccioli così, per ridere, con un punto esclamativo a fine vocativo che ispira ironia, anziché timore. Luca Cavina e Paolo Mongardi varcano così la soglia della Western Thule correndo non per la gloria, né per l(’)oro, ma per Bach e Liszt, Giorgio Gaslini e King Diamond, Beethoven e La Monte Young, i Locust e, per Zeus!, questa seconda opera tutta nuova.

Nel tritacarne della Three One G di Justin Pearson (andare a fare un giretto per il feudo Internet e scorrere con avidità il roster alla pagina ufficiale, per capire di cosa stiamo davvero parlando) ci sono, in sintesi, finiti loro. Unici italiani tra cento gruppi a stelle e strisce, e mica i primi idioti a passare sotto i castelli, intendiamoci. Gli Zeus!, ve li ricordate?, ma forse sì, che ve li ricordate, fosse solo per quell’ugola in fiamme, quella copertina apparentemente ambigua. Quell’urlo, munchiano senza Munch, azionato a rigor di logica da quel cervello bambinescamente sezionato e raffigurato oggi, a due anni e mezzo di distanza dall’omonimo opus primum, sulla copertina di “Opera”, tirato a lucido nell’insieme di connettivi nervosi (o nervosi connettivi?), sinapsi al collasso, gangli ribollenti. Cosa significa? Significa che qualcuno, all’estero, ha fiutato la traccia: una traccia che, faticosamente, si era all’epoca materializzata solo grazie allo sforzo congiunto di un numero incalcolabile ed imprecisato di etichette e piccole realtà artigianali del sottobosco underground, come a dire, chi non ha peccato… Nel frattempo gli Zeus! sono scesi dall’Olimpo dei petardi e si sono trasformati in pura dinamite, duo non-solo-più-duo, aperto ad interventi esterni, aggiunte strumentali, rielaborazioni per conto terzi. In America.

Perché in America, a volerla stringere mortalmente, nasce questo disco e, più lateralmente, questo approccio. La matematica insegnata negli squat o, se preferite, chiodi e creste che compilano pagine di brutali algoritmi. Funzionava quindici se non vent’anni fa, il math-core, e non può che funzionare oggi, specie se deprivato della caratteristica patina di profondo attaccamento alle radici morali e filosofiche dei risvolti prettamente musicali. In few words, questa è roba seria suonata da cazzoni, drammaticamente impegnata e profondamente disimpegnata, a partire da titoli ancora più geniali dei precedenti che, da soli, facevano già scompisciare dal ridere. Lo spirito (goliardico) continua. Tra distorsioni, gorgoglii, spruzzi, urla deformate che masticano testi (?) che non vogliono dire niente, bassi giocattolo e cavalcate ritmiche devastanti, il mortale theremin di Vincenzo Vasi e la distensione prog degli incroci strumentali, passa “Lucy In The Sky With King Diamond”, sorpassata a destra dal ritmo frenetico e quadratissimo di “Sick And Destroy” (con Pearson che torna a fare la locusta mangia umani per l’occasione), dal tupa tupa quasi parodistico di “Decomposition N° !!!” e dallo sci-fi di serie Z che si insinua nelle pieghe hardcore old style di “Set Panzer To Rock”. Quattro brani, sette minuti appena e l’incendio che divampa attorno.

C’è poco da fare: Cavina e Mongardi sono dei musicisti enormi, eccellenze degne di nota, professionisti a tutto tondo dediti, interamente ed incompromissibilmente, alla propria passione. Inutile fare, in questo spazio, la cernita dei recenti progetti in cui l’hanno dimostrando, assurgendo peraltro ad una popolarità che di strettamente “underground” (si vedano Calibro 35 e Ronin, per dire) ha ormai poco, se non nulla. “Opera” è l’ennesima riconferma di questo talento. Intontite e cerebrali sono le mazzolate sparse per “La Morte Young”, ancorate ad un minimalismo ossessivo sezionato su signatures sbilenche e stop&go brucianti: “Beelzebulb” si veste addirittura di una scalcagnata corazza metallica, epica donchisciottesca che tra una serratura ritmica e l’altra mena botte da orbi; “Blast But Not Liszt” è math-prog ricettacolo di melodie sotterranee che fa, spesso e volentieri, la voce grossa, con accorata zampata noise finale. Il minutaggio dei brani è stato – spesso e volentieri – cospicuamente asciugato e ciò, se da un lato favorisce senz’altro una minore dispersione, dall’altro stimola a nuove sfide contenutistiche, l’ostacolo di individuare i punti cardine della narrazione senza troppi florilegi alle spalle. “Giorgio Gaslini Is Our Tom Araya” (che fa il verso alla vecchia “Tom Araya Is Our Elvis” degli Zu di “The Way Of The Animal Power”) si sviluppa, tortile, su un dinamismo funk impregnato di umori midtempo, profondamente oscuri: “Bach To The Future” addirittura rilegge segmenti neoclassici in chiave post-grind, con effetto Dying Fetus assolutamente ilare; “Grey Cerebration” vola verso la stratificazione della mini suite e, in appena quattro minuti e mezzo, frantuma un complesso corale con ceffoni jazzcore, impantanamenti sludge e code interstellari.

Pur di non temerli, l’impero è pronto ad accoglierli a braccia aperte, questi due viandanti. D’altronde, si sa: la California non è mica un distretto di Milano...

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 15:07 del 28 febbraio 2013 ha scritto:

Ma quanto è bello, essere alla ricerca di qualcosa, non sapendo bene cosa, e trovarla, senza che nessuno te la voglia far trovare. Insomma, qualunque cosa questa sia (le mie orecchie, sicuramente meno allenate di quelle di Marco a queste sonorità, mi suggeriscono un immaginario sodalizio tra Zu e Meshuggah, con digressioni prog metal stile primissimi Dream Theater e math rock come dei Battles incarogniti), ho finalmente trovato quello che non stavo cercando. E me lo tengo stretto. Grazie Marco.