Patrick Wolf
Wind In The Wires
Ci sono dischi capaci di tirare fuori umori e ricordi sepolti da tempo o che non pensavamo neanche di avere, dischi che riescono a palesare alla perfezione i nostri stati d’animo più intimi e che si insediano sottopelle al primo ascolto per rimanervi per sempre.
Wind in the Wires è uno di questi, mirabolante opera seconda di una delle sorprese più felici fra i songwriters del nuovo millennio : il polistrumentista Patrick Wolf.
A 20 anni non ancora compiuti pubblica il suo primo album “Lycanthropy” in cui getta tutto il suo entusiasmo insieme a vicissitudini e (in)successi adolescenziali senza paura di mettersi in gioco.
Due anni dopo eccolo tornare alla carica con un’opera molto più matura, che si discosta dall’esordio, pur conservandone i tratti e gli spunti più interessanti.
Non ritroviamo più quindi gli slanci smaccatamente elettro-pop come “Bloodbeat” o “A Boy Like Me” che caratterizzavano il primo album, ma prende piede un’attitudine classica o a volte vagamente folk.
Già dall’inizio si intuisce che Patrick fa sul serio, attaccando in “The Libertine” con pochi accordi di piano che vengono interrotti poco dopo da un’accattivante sezione di violino ed effetti che richiamano sospiri ed il rumore di zoccoli di cavalli al galoppo.
Ma che il nostro si sia gettato alle spalle insicurezze e traumi precedenti (merito anche degli studi al Trinity College Music Conservatoire) diventa sempre più evidente con ballate melodiche e romantiche come la bellissima e struggente title-track e “Teignmouth”, che esterna una malinconica ricerca di libertà, o con i ritratti bucolici di “The Railway House” e “The Gyspy King”.
Padronanza dei propri mezzi e consapevolezza del proprio fascino si avvertono poi nelle trascinanti e ritmate “This Weather” e “Tristan”, che sfoggia un battito dai sapori industriali.
Ammaliante e spesso imprevedibile l’uso della voce per tutta la durata, una delle caratteristiche su cui Patrick ha lavorato maggiormente durante la gestazione dell’album.
In definitiva “Wind in the Wires” sembra una presa di coscienza della propria natura, un voler trovare il proprio posto nel mondo dopo la trasformazione “da lupo a uomo” effettuata in precedenza ; messi da parte la rabbia e gli sfoghi di “Lycanthropy”, l’artista si concentra su una ricerca di pace e felicità che sembra poi aver trovato nel recente “The Magic position”, ma questa è un’altra storia.
Uno dei paragoni più discussi è quello con David Bowie e non posso fare a meno di lanciare il sasso: il Duca Bianco diede alle stampe “Hunky Dory” quando aveva 24 anni, Patrick qua ne aveva due di meno.
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