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R Recensione

6/10

Shardik

Shardik

Un anno decisamente impegnativo quello che va a concludersi, per il nuovo protégée di casa Tzadik, il mastro incantatore della sei corde Matt Hollenberg. A febbraio il sesto capitolo – in due anni e poco più – dell’avventura Simulacrum, “The Garden Of Earthly Delights” (spoiler: è in arrivo il settimo sigillo, firmato da una formazione allargata a Julian Lage e per l’occasione rinominata Insurrection). Poi l’incremento, graduale ma costante, dei progetti in cui la composizione assume pari dignità dell’esecuzione. A maggio l’esordio per Relapse del supergruppo John Frum, con il discreto “A Stirring In The Noos”. Di qualche giorno fa l’uscita, a sorpresa, su Mimicry, di “Retrocausal”, il second act della band madre Cleric. che – dopo il primo vagito del 2010, “Regressions” – sembrava essere entrata in uno iato indefinito. Nel mezzo, infine, ad agosto, l’omonimo battesimo di un altro supergruppo, Shardik. Partita in sordina, la carriera di Hollenberg pare decisamente ascesa ad altre altezze: non a tutti è dato l’onore di esordire su Tzadik con un power trio appositamente assemblato per l’occasione.

L’unico dubbio di cui ci facevamo portatori, nella recensione di “A Stirring In The Noos”, era sintetizzabile come di seguito: l’incredibile strumentista Hollenberg sarà altrettanto bravo come songwriter? Né i Cleric, né i John Frum si potevano ritenere indicativi in tal senso. Sfortunatamente, non lo sono nemmeno gli Shardik. La motivazione è duplice: una interna, l’altra esterna. Da una parte abbiamo la relativa immaturità dei mezzi espressivi di Hollenberg, il cui chitarrismo – un cerbero che vagola tra le inquietudini del crossover novantiano, il Fripp più intransigente, l’extreme metal e il serialismo integrale – esibisce con ancora troppa ingenuità (e con un pizzico di sicumera) le proprie fonti di ispirazione. Si prenda tutta la prima parte di “Vorga T:1339”, un prog-djent tarantolato che, di distonia in distonia, svicolando attraverso fraseggi astrali, arriva a citare occultamente la “Level Five” di crimsoniana memoria: o, ancora, l’attacco assatanato di “It Is What It Isn’t”, la giustapposizione schizofrenica di sezioni parallele in “Inner Dimensions” (con un inaspettato, conclusivo montare post-core a serrare le fila) e l’esasperata ricerca della dissonanza in “Faustian Bargain” (attraverso i “soliti” pit stop di exotica al bromuro e dark ambient che più dell’oltretomba non si potrebbe) non suonano altro che come un reboot di Simulacrum. Dall’altra parte c’è la cronica tendenza, da parte di Tzadik, di far suonare tutte le sue produzioni lateralmente “rock” allo stesso modo: un calderone circense di etno-metal ricolmo di preziosismi e di cambi d’atmosfera, un crossover estremo aggiornato al Nuovo Millennio. È un vizio duro a mitigarsi, un peccato di forma e sostanza che – se da un lato ci ha regalato grandi capolavori, vedi alla voce Rashanim, Koby Israelite e Secret Chiefs 3 – negli ultimi anni ha partorito anche tutta una serie di produzioni in gran parte sovrapponibili fra loro (Abraxas, Zion 80, AutorYno o, per rimanere all’interno del 2017, “Reclamation” dei Burning Ghosts).

Con ciò detto, “Shardik” rimane comunque un ascolto piacevole, con il quale si può cimentare chiunque abbia un minimo di familiarità con l’opus zorniano. Il cuore di “It Is What It Isn’t” è catturato da una ritmata rapsodia acid-surf, che declina in un melodramma minimale per soli synth (il chiaro preludio alla sfuriata dodecafonica conclusiva). “Past Lives” è un grande saggio di klez-metal giocato su armonie scoscese e progressive (in spolvero la sezione ritmica di Matt Buckley e Nick Shellenberger) e, in coda, trasformato in un’entusiasmante torcida thrash. Lo stesso schema viene approcciato in “The Great Attractor”, ma con dispersione assai maggiore e con una gestione dell’interplay non granché convincente (le sconnessioni ritmiche sembrano ideate ad hoc per far risaltare il solismo di Hollenberg). Le cose migliori arrivano per ultime: così l’intenso e lirico finale in crescendo della summenzionata “Vorga T:1339”, così anche la conclusiva “La Douleur Exquise” che – ad una seconda parte in bilico fra poderosi assalti heavy e pericolose apnee ambientali – contrappone una prima metà intessuta di melodie liquide di gran gusto.

Per completisti.

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