Esben And The Witch
Wash The Sins Not Only The Face
Il miglior pregio di un disco, a mio parere, è quello di creare unatmosfera, un immaginario; i dischi che ci riescono sono quelli che lasciano unimpronta più forte.
Wash The Sins, Not Only The Face è uno di quei dischi. Gelido, roboante e allo stesso tempo intimo.
Potremmo definirlo dark wave, ma dal sound assolutamente attuale, dream pop, dei più scuri e shoegaze, per non dimenticare la coltre di chitarre che spesso ricopre le canzoni. Si potrebbe pensare ad altri gruppi dalla voce femminile (Siouxsie And The Banshees, Cranes) ma i riferimenti suonerebbero ingenerosi nei confronti degli Esben And The Witch, che alla seconda opera hanno maturato uno stile personale, nonché poco chiarificatori. Rispetto allesordio, il clima si è fatto meno cupo, più aperto e la composizione ne ha guadagnato in solidità e ordine. Un caos che si è riusciti a imbrigliare. I riff di chitarra lampeggiano e si nascondono fra le nebbie, come nellipnotica Slow Wave; menzione speciale per il barbuto chitarrista in grado di tirar fuori riff e arpeggi immediatamente riconoscibili. I synth stanno sullo sfondo, riempiono gli spazi, mai invadenti e creano attesa (il passo felpato di Shimmering).
Non si pensi che questo sia un disco privo di muscolarità, la sezione ritmica è ben in evidenza e fende con forza lo strato sonoro. La batteria trae la sua forza dalla dirompenza dei pattern, protagonisti assoluti nella prima parte del disco (la cavalcata di When The Head Splits). I feedback graffiano e sferzano con la forza del freddo vento del nord sui paesaggi disegnati dai delay (Iceland Spar e Despair). Su tutto regna incontrastata la voce della cantante Rachel, intenta a salmodiare o a recitare dolci filastrocche, è sempre perfetta e suadente. I testi tracciano scenari oscuri e ammalianti, di angoscia interiore. Molte sono le citazioni, il titolo stesso viene da uniscrizione in una chiesa di Istanbul. La fredda dolcezza di Deathwalz, in costante mutazione e con un cantato ricco di hooks, è il singolo più riuscito e segna la prima, praticamente perfetta, metà del disco.
La seconda parte del disco rallenta, sembra quasi di essere guidati, nel corso dellalbum, lungo un sentiero mentre si è inseguiti dalla tempesta, fino a quando non si giunge ad un oasi di calma, una radura circondata da eco dalla quale si intravedono le stelle mentre beep inquietanti risuonano da chissà dove in Putting Down The Prayer.
Il momento di massimo raccoglimento è rappresentato dalla stupenda The Fall of Glorieta Mountain, dal cui nome ci si aspetterebbe un pezzo roboante invece di questa sommessa meraviglia, non troppo distante dagli XX. Gli ultimi tuoni in chiusura, nei 7 minuti ben costruiti di Smashed To Pieces In The Still Of The Night.
Quando un disco come questo finisce, è strano tornare al rumore di tutti i giorni.
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