R.e.m.
Document
Immaginate di essere nel 1987, e di aver appena acquistato l’ultimo lp di una certa band di college rock americano, tali R.E.M. da Athens, Georgia (Sud-est degli States) che giusto quattro anni prima avevano dato alla luce un capolavoro assoluto: “Murmur”, brumosa pietra miliare iniziatrice dell’alternative rock, gemma post-punk psichedelica estratta da una miniera di dolci melodie sixties.
Ecco, probabilmente l’attacco sferragliante di “Finest Worksong” non è esattamente quello che vi sareste aspettati. Non che fossero mancate le premesse di un cambiamento nel sound, in parte già attuato nel precedente “Lifes Rich Pageant”, ma insomma, qui il taglio col passato è netto: il sound si fa più muscolare, la sezione ritmica più smaccatamente rock e meno post-punk, anche i testi di Michael Stipe diventano meno criptici e diventa persino possibile rintracciarvi una certa vena politica. Sia per questa maggiore apertura al pubblico sia per la presenza di un paio di assi nella manica sulla tracklist, Document diventa il primo lavoro dei R.E.M. ad avere un certo successo commerciale dopo anni durante i quali la band aveva lavorato sodo per ampliare la cerchia dei propri fan, costituita prevalentemente da ascoltatori delle radio universitarie americane. È con questo quinto album (come “catalogato” sulla copertina) che prende vita il suono “alla R.E.M.” con cui sarebbero diventati famosi in tutto il mondo di li a qualche anno più tardi, e contemporaneamente, è con quest’album che la band si congeda dall’etichetta IRS con cui ha dato vita ai suoi migliori lavori, soddisfacendone, alla fine, le attese.
La band ha ormai raggiunto la maturità, paradossalmente e semplicemente alzando il volume delle chitarre e aumentando la distorsione, ma non solo, si può notare infatti come la scrittura dei brani sia ormai sotto la totale padronanza dei quattro e come rispetto ai lavori precedenti la voce di Stipe la faccia da padrone. Document potrebbe essere un disco da viaggio, classicamente on the road all’americana, spensierato e scazzato, ma con delle nubi scure e cariche di pioggia all’orizzonte. Fra le schitarrate iniziali e marcette beatlesiane, come la claudicante “Exhuming McCarthy” che si snoda fra break quasi a ritmo di bossa e un ritornello che si attorciglia su due accordi fanno capolino episodi più cupi come il jingle-jangle di “Welcome to the Occupation” o le conclusive “Lightning Hopkins” e “Oddfellows Local 151” all’insegna delle distorsioni e dei feedback. I pezzi da novanta però sono altri e i R.E.M. ce li servono in doppietta al centro del disco: prima “It's the end of the World as we know it (and I feel fine)”, uno dei pezzi più famosi della loro carriera; una batteria dà l’attacco a una pazza descrizione di un mondo alla sua fine, rigorosamente da osservare da soli e in disparte, buttata fuori in una logorrea quasi punk prima di aprirsi nel noto ritornello. Segue “The one I love” il singolo che lanciò l’album e che tutt’ora è un evergreen nelle radio di tutto il mondo. Apparentemente una canzone d’amore è in realtà una cinica descrizione di come le persone si trattano a vicenda “a simple prop to occupy my time”, coronata dal ritornello più semplice e incisivo che ci possa essere: la parola “Fire” (ricorrente nell’album) accompagnata dai cori dell’in formissima Peter Buck.
Ma la canzone più bella dell’intero album è sicuramente “King of Birds”, una ballata folk memore delle atmosfere di canzoni come “Swan swan H”, che parte con la chitarra che suona come un sitar avvolto fra le nebbie dell’organo, per poi prendere lentamente il volo con l’emozionante ritornello. C’è spazio anche per “Strange” una cover degli Wire (tanto per non smentirsi del tutto) riletta in maniera velocizzata e più esuberante rispetto alla paranoica versione originale.
L’anno dopo l’uscita di Document, i R.E.M. firmeranno un contratto con la major Warner e verranno accusati di essersi venduti, iniziando una nuova fase altalenante della loro carriera, ma quest’album è il perfetto suggello a una serie di album praticamente perfetta oltre che fondamentale per la nascita dell’Indie Rock che avrebbe prosperato nel decennio successivo, a firma di quella che è stata una delle più grandi rock band degli ultimi trent’anni.
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