Blur
The Magic Whip
Stop to the Coca-colonisation! proclamava un giovane Damon Albarn allalba degli anni novanta. Sappiamo comè andata a finire, con lalt rock americano che prendeva il sopravvento delle composizioni dei quattro dellEssex, prima che gli stimoli diventassero innumerabili, le tensioni ingestibili e prima che tutto implodesse.
Ventidue anni dopo, rimessi insieme i pezzi, i fautori di cotanta britishness hanno ritrovato la voglia di lavorare insieme in un albergo di Hong Kong e The Magic Whip è nato intriso di estetica decadente orientale, non nel suono, quanto nello spirito. Quando si dice la globalizzazione
Non staremo qui a parlare dellarticolata storia damore/odio fra i due galletti di casa Blur, Albarn e Coxon, ma è interessante sapere che tutto il materiale poi confluito nellalbum era custodito nel pc di Albarn e che, dopo intense jam session con la band, Coxon si sia offerto di pensare allediting e al missaggio, in compagnia di Stephen Street fautore degli album del periodo "british". Tutto questo, si badi bene, è successo perchè i quattro avevano tempo da perdere, causa la cancellazione della loro partecipazione ad un festival.
Cera evidentemente bisogno di una scintilla che facesse ripartire il motore, finora sonnecchiante, fra tour mondiali e tre singoli rilasciati come se nulla fosse. (Fools Day, Puritan e Under The Westway, fra il buono e il mediocre).
Come suona allora, il nuovo album dei ritrovati Blur? Bene, innanzitutto. E straordinariamente fresco e denso di rimandi al passato contemporaneamente. Si sentono inconfondibili echi dellepoca doro Parklife/ The Great Escape. Talvolta qualcosa di più che echi, come nel singolo Lonesome Street, il tuffo più profondo, I Broadcast con quel mix di chitarre e tastiere giocattolo che fa tanto Trouble In The Message Centre e che è stato a lungo il marchio delle filastrocche sardoniche della band. Il distillato più puro di questa materia è certamente Ong Ong, sorniona quasi fino allebetaggine, non mancherà di fare quello che i divertissement di cui è cosparsa la carriera dei quattro sanno fare meglio, ficcarvisi in testa.
La strana sensazione di deja vu, fra il fastidioso (non si può fare a meno di chiedersi "ma dove lho già sentita?") e il rassicurante, è fortissima in Go Out: London Loves? Si, ma non proprio. Top Man? Neanche. Di sicuro, fra le tracce anticipate, There Are Too Many Of Us è la più interessante; gli interrogativi sulla vita nei grattacieli-formicaio scorrono attraverso un megafono fra registrazioni di parlato (anche questo, marchio di fabbrica) e violini Eleanor Rigbyani, aprendosi in uno scenario synth-psichedelico.
Non è un caso che il miglior singolo sia una ballata, anzi, è indicativo dellandamento dellalbum. I pezzi lenti, oltre ad occuparne una parte sostanziosa sono anche quelli che spiccano per qualità ed è qui che arriviamo al tasto dolente: complice anche un certo contagio della narcolessia di Albarn solista il ritmo dellalbum è lento, riuscendosi a mantenere giusto sopra il filo dellattenzione. Tought I Was A Spaceman, ad esempio, con i suoi riverberi siderali ha molto a che fare con il materiale edito in Everyday Robots.
The Magic Whip è un disco che farà felici i fan e che forse deluderà le aspettative di chi aveva apprezzato gli scarti stilistici di 13 e Think Thank, difficili a ritrovarsi, se non per dettagli e coloriture; My Terracotta Heart, di una raffinatezza melodica rara, il suo battito tribal-robotico e la sua chitarra latina (anche qui, Out of Time?), New World Towers sorta di gavotta moderna, Ice Cream Man e i suoi ghirigori elettronici e qualche percussione qua e là (proveniente, di nuovo, più dal percorso solista di Albarn che dai dischi di fine millennio della band). Pure un pezzo appagante come Ghost Ship è piuttosto atipico, sospeso in unatmosfera vintage.
Fortunatamente, The Magic Whip è anche uno di quelli che gli anglosassoni chiamano growers e il merito è anche delle suddette ballate, classicissime e senza tempo (talvolta anche un po fuori contesto come già The Universal, To The End). Senza dubbio Pyongyang è lo zenith sia emozionale che compostivo del disco; il timing perfetto dei versi, lapertura melodica, la chitarra che molleggia a sottolineare gli apici, sono puri Blur.
Stupendo lo stacco fra la strofa, col suo passo ritenuto e il ritornello (nel 95 sarebbe stato classico subito, ma anche oggi) dove un poeticissimo Damon canta Kid the mausoleum's fallen, and the perfec avenues will seem empty without you. And the pink light that bathes the great leaders is fading.
Mirrorball guarda ai fasti di This Is A Low, alle sue atmosfere nebbiose ed è un commiato perfetto, una ballatona ricca di pathos di quelle che solo loro sanno tirar fuori. Damon sbiascica con la solita forte cadenza, la telecaster di Coxon è spigolosa e inventiva, il basso di James percorre le solite traiettorie fantasiose, il drumming di Rowntree è sofisticato e per un attimo sembra di tornare indietro, la magia che solo i Blur al completo possedevano è ristabilita.
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