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R Recensione

6/10

Man's Gin

Smiling Dogs

Osereste mai rinfacciare ad un chitarrista black metal di non avere cuore? Forse no: sarebbe il difetto più insulso da contestare a scapito dei molti validi. E ad un chitarrista black metal che ha messo in piedi una band con un sergente dell’esercito americano di stanza a Baghdad? Forse sì: giù con i panegirici politici. Pensate alla sfortuna: stiamo parlando dello stesso individuo, in contemporanea. E se quel chitarrista avesse, nel profondo del suo cuore, un deciso debole per, mettiamo, il folk tradizionale, gli unplugged cobainiani, l’ancient regime hard rock, condividesse insomma l’anemoscopio di gusti con il flanellaceo impenitente di Eddie Vedder? Qualora pensiate che sia geneticamente impossibile il verificarsi di una coincidenza del genere, continuate a leggere.

Il soggetto in questione si chiama Erik Wunder, deus ex machina di quei Cobalt condivisi con Phil McSorley – il guerrafondaio, per capirci… – e segnalatisi, un paio d’anni fa, con un “Gin” che cercava disperatamente, non riuscendoci, di annegare gli intoccabili ed inevitabili oltranzismi dello spettro black in una sensibilità artistica quasi espressionista (si rimandano alla copertina del disco ulteriori dubbi). La specularità del primo vagito solista del musicista statunitense al percorso della band madre è, peraltro, sostanzialmente verificabile, non solo con una sciatta analisi toponimica. Per ogni brano di “Smiling Dogs”, infatti, si avverte quanto mai indispensabile l’Aufhebung, il bisogno di andare oltre, rimanendo ferma l’esigenza di conservare le proprie peculiarità (e da esse il background che ne deriva). Una metafora non male per, senza intento dispregiativo, un lavoro di songwriting classico in sé stesso. Le acustiche si affiancano alle elettriche e, in qualche caso, le sostituiscono: la ruggine si deposita sulle corde vocali, trasformando le urla in gemiti e i canti di lavoro degli schiavi nordamericani in piccole epopee di solitudine e malinconia; la reductio ad unum assume caratteri radicali e persino confortevoli, perché diretta verso gli elementi senza i quali non esisterebbe il concetto di “cantautore” ed il background culturale che ne deriva.

Cerchiamo di non giocare con la filosofia. “Smiling Dogs” è black nell’animo: s’intende metal e nigger mode, senza che uno escluda l’altro. Ma è anche profondamente blue: triste, desolato, spoglio. Piano, chitarra e batteria tratteggiano nella title-track, per citare la migliore, uno spaccato di intensa debolezza umana, robe che avrebbe potuto scrivere un Bukowski privo di verve ironica (altro ossimoro). Poi arrivano, a rimorchio, la carica tribale di “Free”, che monta quasi garage sul finale, “Stone On My Head”, ossia il soul filtrato dal grunge dei due accordi e via, ed il pianistico blues speziato Motown di “Solid Gold Telephone” (un applauso anche a Fats Domino, prego): tripletta che mette, di nuovo, punto e a capo. Le due anime di Man’s Gin si guardano, si annusano, a volte illanguidiscono l’una nell’altra, più spesso si tendono la mano per dare vita a pezzi fuori dal tempo, di grande spessore emotivo.

È anche vero, però, che a Wunder, dopo un po’, la tracolla comincia a stare stretta. I livelli del disco cominciano, di conseguenza, a scendere. Archiviata una prima parte solida quanto entusiasmante, nel prosieguo convincono assai meno la ballata “Hate. Money. Love. Woman”, musicalmente e liricamente scontata – l’accostamento con uno Springsteen lo-fi non è così blasfemo – o le due parti di “Nuclear Ambition”, di cui la prima è un incedere semiacustico a metà fra Soundgarden e Pearl Jam (mica è stato citato a caso, Vedder: la voce gli è in più punti sovrapponibile, provare per credere) e la seconda una scossa rock con un potente assolo nel mezzo. Non basta rievocare i fasti degli anni ’90 nella conclusiva “Doggamn” per sentirsi al sicuro: dai cliché, di qualunque epoca essi siano, non si scappa.

Per donare a questo gelido inverno una degna colonna sonora, in ogni caso, ora sapete dove cercare.

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C Commenti

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simone coacci alle 12:30 del 12 gennaio 2011 ha scritto:

La sensazione di "deja entendu" è, a tratti, davvero opprimente. Eppure un pezzo come la title-track non è semplicemente derivativo: è la song che gli Alice In Chains scriverebbero oggi se Staley fosse ancora vivo. Tocca corde autentiche, di vita vissuta e randagia. Quasi commovente: senza tempo e senza lieto fine. E anche "Solid Gold Telephone" merita. Bravo Biz ad aver conferito dignità a questi perdenti orgogliosi e testardi.

SamJack (ha votato 7 questo disco) alle 12:41 del 12 gennaio 2011 ha scritto:

Spontaneo e genuino nella sua crudezza...senz'altro derivativo, ma con cuore.