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R Recensione

7/10

Kiran Leonard

Derevaun Seraun

Vedo la figura guizzante di Kiran Leonard, evasivo, ingobbito sui suoi strumenti, stritolato dal peso del palco. Vedo il suo sorriso, la sua esuberanza, e non posso fare a meno di pensare che in ragazzi come lui rivivono la spontanea e contagiosa ingenuità del genio, il coraggio creativo di chi mai per un istante ha anche solo pensato di avere qualcosa da perdere. Solo così si spiega la scelta, a un anno e mezzo di distanza dal complesso e stratificato “Grapefruit”, di uscirsene fuori con un disco che per forma e contenuto non potrebbe essere più agli antipodi: una sinfonia moderna per piano, voce e archi, in cinque movimenti ispirati da altrettante opere letterarie (lo stesso titolo, “Derevaun Seraun”, cita un’ambivalente espressione gaelica che risuona nel subconscio infantile dell’Eveline joyciana e ne motiva la paralisi esistenziale), composta per festeggiare la riapertura, nel 2014, della Biblioteca Centrale di Manchester. Lì l’esplosione di colori, qui la grafite, il tocco appena accennato. E che tocco.

Sarà pure una frase fatta, ma Leonard è un talento fuori dal comune, letteralmente strabiliante. Ascoltarlo alle prese con materiale così lirico, delicato ed espressivo, poi, è particolarmente soddisfacente, perché si sposa alla perfezione con la sua ipertrofica sensibilità. Non vi negherò che, ascoltando per la prima volta l’emozionante andamento spiraliforme di “Living With Your Ailments” (che muove dal celebre saggio di Camus Le Mythe de Sisyphe, lo stesso – non a caso – rimasto aperto a fianco del cadavere di Nick Drake), ho pensato immediatamente a Tim Buckley: non tanto per il presunto astrattismo di una trama melodica in verità piuttosto semplice, ma per la concentrata semicità di ogni passaggio, in un climax teatral-orchestrale che si denuda progressivamente di ogni orpello e si spegne sull’ondeggiare di una singola nota. L’impressione viene confermata dal crescendo istrionico di “A Particle Of Flesh Refuses The Consummation Of Death” (c’è lo zampino di Tropic of Cancer di Henry Miller), un flusso di coscienza minimalista inaugurato da una trionfante ouverture barocca. Ci sono ancora Eveline e Rufus Wainwright nel vaudeville vittoriano di “Could She Still Draw Back?”, una confessione a cuore aperto che s’imbizzarrisce e si agita nella sola “The Mute Wide-Open Eye Of All Things” (uno stomp à la Laurie Anderson, influenzato da Amor di Clarice Lispector, appena carezzato dall’incalzare di viola, violino e violoncello). Sotto l’egida della poetica del brasiliano Manuel Bandeira, la conclusiva “The Cure For Pneumothorax” – in cui si mescolano e frappongono, per blocchi e strappi, echi di Radiohead e Takahiro Kido, pennellate di chamber music e di valzer – è un impeccabile saggio di variatio armonica, seppur lontano da qualsivoglia virtuosismo, che riesce a mediare perfettamente l’impatto (neo)classico con una struttura profonda pop.

Stare dietro ai ritmi produttivi di Leonard è impresa disperata quandanche interessante. Accanto ai dischi per così dire “ufficiali” (tra i quali “Derevaun Seraun” è, nel compito, il terzo lungo, ma c’è già fuori la cassettina “Monarchs Of The Crescent Pail”), il ventiduenne inglese rilascia periodicamente sul suo Bandcamp una quantità abnorme di materiale “collaterale” (per cui, tanto per fare un esempio, veniamo a conoscenza di una straniante versione electro di “Living With Your Ailments” contenuta nel “Thread Colors” del 2015 a nome Pend Oreille). Non tutto, com’è ovvio, è degno di essere approfondito: ma il quadro generale restituitoci aderisce perfettamente alla personalità dell’artista. Kiran fa quello che vuole perché, semplicemente, non potrebbe essere diversamente. Un biglietto da visita folgorante e, quanto più importa, autentico.

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