Brian Jonestown Massacre
Who Killed Sgt. Pepper?
Quanto piange il cuore dover parlar male dei Brian Jonestown Massacre... Eppure va fatto purtroppo, chè non ci si può limitare sempre e solo ad elogi fastosi ed entusiasti (la “sottile” differenza che separa il critico dal fan-fun). E allora bisogna dirlo: Who Killed Sgt. Pepper è un disco purtroppo fuori fase, confuso, un pastiche sonoro che deborda decisamente da uno stato “eterogeneo” e vario, palesando un’incapacità di districarsi tra le tante strade in cui Anton Newcombe ha scelto di aprire per l’occasione.
Non che manchino momenti notevoli, sia chiaro. Anzi, ci sono una buona serie di pezzi che si potrebbe definire scientificamente “della madonna” (“m” minuscolo per evidente faziosità anticlericale sia chiaro). In ordine di apparizione: la viscida carica heavy tendente al noise di Tunger hnifur; gli strepitosi sette minuti martellanti e dinamitardi di This Is The One Thing We Did Not Want To Happen (un palese travestimento alla Joy Division, ma ragazzi miei… ce ne fossero più spesso di omaggi del genere); l’assalto sonoro di The one, tra drums robusta e istinti cyber-punk di Ministry-ana memoria (peccato per la parte vocale debole); la psichedelia wave macabra di Someone else unknown, (dove il viaggione onirico congiunge idealmente Throbbing Gristle, This Heat e BRMC); infine il buon giro alla Motorpsycho (dei tempi migliori) di Our time.
Di roba ce n’è insomma, e già questo sarebbe bastato per mettere assieme un disco più che appetibile e privo di lacune. Purtroppo invece Newcombe ha sbrodolato nettamente, puntando su un album carico di materiale, al punto da superare i settanta minuti di musica con troppa roba insipida, inconcludente o incoerente con il circondario. L’apertura psycho-house di Tempo 116.7 ad esempio in sé non è male, ma sembra totalmente straniata dal contesto, fatto di un’operazione generale tesa al recupero di sonorità wave.
A due facce un brano come Let’s go fucking mental: ottima la ricerca strumentale in grado di fondere industrial-wave e psichedelia, molto meno l’insistenza su un ritornello vocal-pop sterile sulla lunga distanza. Piatti e inconcludenti gli avventurismi in campo Kasabian (This is the first of your last warnings, Feel it), pretenzioso ed esageratamente prolungato lo schizzo art-wave istrionicamente teutonico di Detka! Detka! Detka!, totalmente inadeguato il tuffo mistico-spettrale di origine gotica di White music. La scarsa lucidità del lavoro complessivo emerge perfino in quello che apparentemente doveva essere un punto di riferimento saldo e sicuro in cui i BJM hanno trionfato negli anni passati: la ballatona psycho-rock old style in salsa malinconico-bohémien di Super fucked però appare troppo rigida e misurata, priva di quegli spunti necessari per reggere i sei minuti e mezzo della durata.
Per chiudere in bellezza poi dovevamo pure sorbirci i dieci minuti di inutilità di Felt tipped pen pictures of ufos, dimostrazione evidente che non sempre acidi e droghe danno buoni riscontri musicali. Di fronte a questa delusione passa pure in secondo piano la presenza di Will Carruthers (ex Spacemen 3 e Spiritualized). Scusaci Will, avevamo purtroppo altro da constatare.
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