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R Recensione

6/10

Burmese

Lun Yurn

Non voglio costringervi ad ascoltare, a qualsiasi costo, il mastodonte senza titolo di quarantacinque minuti e passa che spiaccica la ciliegina sulla brodaglia di “Lun Yurn”. Persino chi scrive è riuscito a farlo non più d’una volta sola, poco invidiabile record che, per intenderci, all’epoca non sfiorò nemmeno “OV” degli Orthrelm. Cosa ci sarebbe da gustarsi, poi? Due bassi, due batterie ed un ringhio frastornante che grattano senza una pausa per tutto il tempo? Bel digestivo del piffero. Una rincorsa senza senso all’accumulo parossistico, alla violenza innata. Rumore per rumore, rumore per fare male, rumore nichilista come ragione di vita. Nient’altro: assenza di rallentamenti, nessun ripensamento, evacuazione coatta della melodia, distruzione della lirica e dell’andatura plastica del pezzo tipo. Uno smisurato calderone atonale di cui non si scorge il fondo né l’imboccatura, il che sarebbe un pessimo biglietto da visita per chiunque.

La domanda che assilla è però un’altra: si riesce a tenere un tale ritmo – se vogliamo inserire nel discorso una parola che non rientra comunque nei ranghi generali – per quasi un’ora e venti? Si può, eccome se si può. Di gruppi come i Burmese in fondo ne è pieno il globo, e “Lun Yurn” non è certamente il primo esemplare di supporto ottico condannato, giocoforza, alla visibilità ristretta in cui è confinato dalla propria natura. È altrettanto inutile, tuttavia, girarci attorno: a parlare di aborti come questo ci si affatica e si occupa spazio prezioso. Perché elucubrare su un qualcosa che esige solamente il supremo lassismo da parte di chi subisce? Probabilmente nemmeno la copertina digrignata, spigolosissima ed allucinata riesce a catturare con accortezza lo spirito del lavoro. Facendo, poi, la gara di chi ce l’ha più lungo, si potrebbe dire che intensità e profondità del genere sono state già raggiunte, dal noise giapponese, dal cybergrind, dallo splittercore, da Merzbow o dagli Sword Heaven. Eppure qui non è tanto questione di spostare paletti: ogni volta è un nuovo giro, una nuova esperienza, complici anche impercettibili variazioni nel marasma che, sottilmente, si aprono un varco nemmeno così sottile (l’hardcore di “Tim Jurg Gou Si Da Fei Gay”, le lunghe pause di “Bei Gore Oi Zi Polk Gaai Bao Pei Yim Koi”, il thrash in sovrapposizione di “Gum Ziu Gut Lei Lok Yao”).

Malessere ieri ed oggi. Nel 1986 i Napalm Death composero “Scum”: era l’era del binomio Thatcher-Reagan. Sarebbe concepibile “Lun Yurn” disgiunto dalla recessione economica?

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