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R Recensione

6/10

Gigan

Undulating Waves Of Rainbiotic Iridescence

Anni ed anni di scavo, ricerca e compilazione dei più disparati estremismi metallici, tra delusione ed esaltazione, mi hanno insegnato a riconoscere anzitempo i minimi segni premonitori della stagnazione di una parabola artistica. Originalità, coraggio, acume rivoluzionario: i Gigan di Eric Hersemann, nel giro di appena un lustro e tre dischi, si erano imposti a ragione tra le guide indiscusse del brutal death “intelligente” del Nuovo Millennio – secondi solo ai maestosi quadri in movimento degli Ulcerate e, forse, alle voragini sonore dei Portal. Tuttavia, già nei funambolismi dell’ultimo “Multi-Dimensional Fractal Sorcery And Super Science” (2013) si avvertivano i preamboli di quell’affanno che sopraggiunge all’esaurirsi di ogni possibile ibridazione, alla difficoltà di rinnovare una ricetta unica al mondo e all’esponenziale ridursi delle sue possibilità espressive: nel caso specifico, un vorace mostro mutante imbevuto di una heavydelia totale ed ipermassiccia, in bilico sul filo dell’orizzonte degli eventi. Una lunga lavorazione di quattro anni (altra spia eloquente…) ci consegna un “Undulating Waves Of Rainbiotic Iridescence” che – passione per i titoli assurdi rimasta immutata a parte – segna una significativa battuta d’arresto nel percorso evolutivo del power trio di Tampa, Florida.

Lo scheletro dell’album, introdotto e concluso da due suite di dieci minuti e, quindi, esageratamente simmetrico per essere casuale, riflette altresì l’intenzione di donare una naturale circolarità alle immaginifiche e stratificatissime trame strumentali partorite dalla fervida immaginazione di Hersemann. “Wade Forward Through Matter And Backwards Through Time”, che prende forma da un incessante vorticare di chitarrismo acido, si abbatte con potenza spropositata, in uno schizofrenico alternarsi di rifferama death e supersonici fraseggi math-core: nella seconda metà il corpo celeste torna a disgregarsi, confondendo i propri tratti in un conglomerato di fumi spacey attraversati nientemeno che da un classico solismo heavy (ad Hersemann, non è certo un mistero, piacciono molto i primi Iron Maiden). “In Between, Throughout Form And Void” cala la ben più impegnativa carta degli impaludamenti free form, in un suggestivo sovrapporsi di effetti e distorsioni da cui guizzano fuori le dissonanze psichedeliche degli Alchemist di “Spiritech”. Il dispendio di energie – fisiche, per chi suona: intellettuali, per chi ascolta – rimane notevole ma, in definitiva, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, nulla per cui strapparsi i capelli.

Non va troppo meglio alla corposa sezione centrale del disco, fatta eccezione per una “Elemental Transmography” che, prima di cadere sotto i (400? 4000?) colpi dell’implacabile Nathan Cotton, sfodera un raffinato gusto melodico astral-fusion che deve qualcosa ai Dysrhythmia di “Barriers And Passages”. Il singolo (si fa per dire) “Plume Of Ink Within A Vacuum”, con il riff introduttivo che sfuma nel montare del phaser, si dibatte frenetico tra progressioni groovy e schizoidi contratture à la Krallice. “Hyperjump-Ritual Madness” è una furente danza noise che, tra poliritmi imprendibili e fulminanti rilanci, soffoca nelle spire della solita serpe cosmica. Il continuum con la successiva “Clockwork With Thunderous Hooves”, che schiuma montagne di tritoni luciferini deformati dal wah, è un artificio di maestria tecnica eseguito senza troppi sussulti. La sola “Ocular Wavelengths’ Floral Obstructions”, squassata da muri di furibondo rumore bianco, sembra aprirsi ad aliene digressioni melodiche doom-black, ma vi è almeno un minuto di troppo ad intralciare una chiusura che avrebbe potuto essere ben più apocalittica.

Il problema di fondo è che – al netto di una variatio timbrica impressionante, forse persino ottundente – le accelerazioni e i rallentamenti mantengono una struttura oramai stereotipica: aggressioni al fulmicotone, rimpalli fittissimi ed inumani tra chitarra e batteria, decompressioni interstellari. Ne consegue l’estremo paradosso: pur diversissimi tra loro, i brani tendono a suonare tutti nello stesso modo (non aiuta l’incolore personalità della new entry Jerry Kavouriaris, che rimpiazza al microfono Eston Browne). È il tormento atavico del brutal death canonico dal quale, fino ad oggi, i Gigan si erano magistralmente distanziati e al quale, purtroppo, rischiano di essere ricondotti.

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