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R Recensione

7,5/10

Arto

Fantasma

Nel troppo spesso sottovalutato Inferno argentiano (1980) spicca una scena esemplare, forse l’ultima davvero visionaria della carriera del cineasta romano: nel tentativo di recuperare il portachiavi cadutole in una pozza, la giovane protagonista si avventura nei sotterranei allagati del palazzo newyorchese dove abita, un autentico dedalo subacqueo che nasconde nientemeno che un intero appartamento. Non è tanto l’inattesa scoperta a lasciare di stucco: è l’assoluta sospensione dei rapporti causali e spaziotemporali, la creazione di un universo narrativo che – grazie anche ad una ben definita estetica, coloratissima eppure decadente – non risponde a nessuna delle leggi che governano l’universo esterno. Seguiamo attentamente i passi del personaggio principale, ma non riusciamo veramente a cogliere come sia arrivata nel luogo che ci viene mostrato, né come possa affrontare i risvolti assurdi ed apparentemente illogici della situazione che si sta trovando ad affrontare: siamo, in definitiva, di fronte a quello che il compianto Todorov chiamava fantastico meraviglioso, dove il soprannaturale – al termine degli avvenimenti fantastici – viene dato per assodato ed accettato come tale.

C’è molto di fantastico meraviglioso in “Fantasma” (quel titolo, poi…), prima narrazione lunga del supergruppo Arto, quartetto con base a Bologna che mette assieme Luca Cavina (Calibro 35, Zeus!), il fratello Simone (IOSONOUNCANE, Junkfood, Comaneci, ex Ottone Pesante), Cristian Naldi (Ronin, Fulkanelli) e il tecnico Bruno Germano. Il video di “In Limine”, primo brano pubblicato in ottobre – e, curiosamente, non finito su disco –, racconta già molte cose dell’immaginario della band: sfarfallii cromatici, sere plumbee in campagne desolate, stradine sterrate che si incuneano in boschi di sterpaglie. L’immaginifico impensabile che irrompe nel ciclico quotidiano. La musica: un gargantuesco soundscape di sonnecchiosa dronamericana sotto la cui superficie scalciano tarantolate suggestioni shoe-metal, un cerimoniale che addiziona Jesu ed Across Tundras. Facendo due conti, ci si aspetterebbe il “solito” disco post-something buono a rimpolpare le nicchie popolate dai die hard-fans: invece no. Se la polisemica copertina potrebbe richiamare alla mente gli sfumati contorni del Mickey Mouse del “Blissard” di motorpsychiana memoria, la prima parte della conclusiva “AibohφhobiA” sembra addirittura una diretta filiazione degli inusuali titoli di coda di quel capolavoro, “Nathan Daniel’s Tune From Hawaii”: sommessi stati di coscienza alterati, una sbilenca trenodia che si sbriciola fra le dita, le complesse (dis)armonie noir-jazz intessute dalle chitarre frippiane di Naldi e Germano che contrappuntano la minimale e tremolante sezione d’archi di Dimitri Sillato e Giuseppe Franchellucci.

Come provare a definire, dunque, i limiti del raggio d’azione di “Fantasma”? Lo si potrebbe fare in vari modi, ma chi scrive preferisce le vie traverse – certo più tortuose ma, chissà, forse più stimolanti. Anche i Baustelle di qualche anno fa, per dire, chiamarono così il più ambizioso e sofisticato dei loro dischi: un’imponente riflessione esistenziale il cui maggior pregio – ed insieme peggior difetto – stava nelle sontuose ed un po’ opprimenti orchestrazioni approntate da Enrico Gabrielli. Luca Cavina condivide con Gabrielli non solo la decennale militanza nei Calibro 35 ma, soprattutto, una dote innata nello scrivere e cesellare magnifici arrangiamenti (si ascolti e riascolti la “Pragma” del recente “Decade”). Per quanto fisiche possano essere le – svariate – soluzioni strumentali ideate dal quartetto, si ha la perenne sensazione di assistere da spettatori agli atti di un’unica, maestosa sinfonia: un concerto elettrico (intelligentemente definito dalla stessa band “oscura soundtrack per ensemble elettrificato”) che, tra scariche e distensioni, slanci e ristagni, accumuli materici e svuotamenti ambientali, riesce sempre a trovare un suo ideale equilibrio, in un gioco di tensioni che non si spegne nemmeno al termine dell’ultimo atto.

For in view of / all the misery, / people just throw — in a few seconds time / their unbearable lives away”, scriveva nel 1938 Bertold Brecht in Über den Selbstmord, un estratto della pièce Der gute Mensch von Sezuan (L’anima buona di Sezuan) successivamente musicato da Hanns Eisler: versi attualissimi, affilati come una lama, già coverizzati dagli Art Bears di “Hopes And Fears” (1978) e qui riproposti nella marcescente ouverture gotica di “On Suicide” (l’interpretazione, sobria ma efficacissima, è di IOSONOUNCANE). Forse che, in virtù di quanto detto, anche il “Fantasma” degli Arto sia un’opera esistenziale, il tentativo di risposta ad un tempo che instilla e impone quesiti angosciosi ed irrisolvibili? Di certo c’è che “Fantasma” è un disco-monade gelosissimo dei propri anfratti, dei segreti e dei meccanismi consequenziali sottesi alla propria costituzione: senza conoscere come ci siamo finiti dentro, come in un nuovo Inferno (altra metametafora della nostra realtà, chissà…) osserviamo impotenti il divampare di micidiali scintille Darkthrone fra i cupi bubbolii teatrali di “Larva”, il fratturarsi matematico dell’incandescente noise-motorik di “Hauntology” (la immagino così, la sonorizzazione di The Yellow Wallpaper) e l’innesto di un maestoso crescendo orchestrale sull’onda delle distorsioni propulsive del basso di Cavina (“Mirror Box”). Persino quando il gioco sembra farsi dichiaratamente più convenzionale, come nello slabbrato post-core di “Ship Of Theseus”, la sorpresa è dietro l’angolo: dietro ai chiaroscuri chitarristici si nascondono mefitici carillon per farfisa, oltre i muri d’acciaio un acre reticolato elettrico da estate di san Martino, alle spalle del montare ritmico occhieggiano i filtri dark wave del solito basso.

Succede di tutto, per poi finire così: con la processione bandistica di “A Ghost Limbo” che accenna un passo di valzer sopra al vibrafono di Sebastiano De Gennaro (echi del Morricone più teso e spastico), salvo poi naufragare tra i flutti di un mare in tempesta e spegnersi tra stringhe di slide e sottilissimi droni. È un luogo comune, ne conveniamo, così ritrito da non poter non provocare un sincero fastidio, ma esimersi non è possibile: “Fantasma” è davvero un grandissimo disco.

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