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R Recensione

6,5/10

White Stones

Kuarahy

Una ramificazione di possibilità, come nel Przypadek di Kieślowski. Salire sul treno: lasciare che Mikael Åkerfeldt stravolga la formazione degli Opeth dopo “Ghost Reveries”, concedere un assaggio di compromesso storico in “Watershed” e poi, da lì in avanti, un’altra storia, senza quasi più nulla a che vedere con la precedente. Perdere all’ultimo momento il treno: assorbito lo scossone del cambiamento, “Watershed” è una delle papabili opzioni su come potrebbero – potrebbero: non dovrebbero – suonare gli Opeth della maturità. Perdere definitivamente il treno: dimenticare “Watershed” e, con esso, rimuovere quanto di contingente avrebbe potuto esservi legato. Volente o nolente il bassista Martin Mendez, su quel treno, alla fine ci è salito: ma nulla vieta di tornare indietro, seppur fittiziamente e retrospettivamente, ed immaginare degli altri e diversi Opeth, un’altra e diversa evoluzione. Scritto a spizzichi e bocconi nelle pause del tour di “Sorceress”, un paio d’anni fa, “Kuarahy” (che prende il nome dalla città natale uruguagia del suo deus ex machina) non è semplicemente l’esordio degli White Stones, emanazione solista di un Mendez qui alle prese con tutte le parti di chitarra e basso (unica eccezione gli assoli, destinati al collega Fredrik Åkesson): è, piuttosto, uno sguardo lanciato alle pagine intonse di un diario personale, uno scrigno di desideri sommersi ed inconfessabili che riemerge in superficie sotto forma di rimosso, mai obliato, death metal.

Apparentemente disco di genere, dunque, che tuttavia, sin dalle primissime note della title track strumentale posta in apertura, denuncia una filiazione ben più meticcia ed eterodossa, diretta discendente di un pedigree artistico in cui passioni adolescenziali e retaggi identitari si fondono in un sol corpo. Se ombreggiature, dissonanze e intervalli chitarristici fanno immediatamente pensare agli Opeth tra fine anni ’90 e primi Duemila (ma quello che sboccia dal rifferama di “Rusty Shell”, suonato da Per Eriksson di Katatonia e Bloodbath, è un assolo che per consistenza sonora e traiettorie armoniche ha molti più punti in comune col moderno tech che con il melodic death), la curiosa scelta di addomesticare l’amplificazione (costantemente evitato l’effetto muro sonoro, per il sicuro scorno dei puristi) e di ampliare il ventaglio di sfumature ritmiche da un lato, di ricalibrare le traiettorie delle traccianti melodiche dall’altro riporta alla mente alcuni felici tentativi del crossover novantiano di ibridare la sperimentazione metallica con il mondo latino. Non si pensi a cronache di fallimenti annunciati come le meteore Ill Niño ma, piuttosto, alle fucine sotterranee di At The Drive-In e compagnia assortita. Alquanto interessanti, a tal proposito, un paio di episodi tra i più lunghi della scaletta: da una parte il build up che porta la tensione alchemica dei fraseggi in quinta di “Drowned In Time” a scaricarsi nel secco growl di Eloi Boucherie, dall’altra l’incandescente materia prog-core di “Infected Soul”, nella cui centrale sezione solista sembrano duellare fra loro Tom Morello e Omar Rodríguez-López.

Per quanto si abbia la generale sensazione che il progetto White Stones non sia destinato a durare nel tempo (bruttino e monocorde il singolo “Worms”), né tantomeno a destabilizzare gli equilibri della band madre (del cui passato prossimo “Taste Of Blood” costituisce un’inferocita, fedelissima decalcomania), “Kuarahy” ci ricorda a chiare lettere come il cantiere Opeth abbia smarrito tutte le sue peculiarità nel preciso istante in cui, da calderone collaborativo di intelligenze musicali, è divenuto unica propaggine naturale dell’attività artistica del proprio bandleader. Per chi volesse un assaggio di ciò che il tempo non potrà restituire, consigliamo l’ascolto della seconda, selvaggia parte di “Guyra” e lo spettrale epilogo strumentale, “Jasy”.

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