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R Recensione

6,5/10

Naxatras

II

La maschera tribale potrà essere divenuta anche evanescente sputnik di un’altra galassia, il calore terrestre color ocra impalpabile interconnessione cosmica, Thessaloniki la base Dulce. Tuttavia, nella maniera, semplice e diretta, con cui i Naxatras si caricano sulle spalle i residui combusti dello stoner, traslandoli e geograficamente e spiritualmente – con ciò apportando un significativo cambiamento di senso superficiale –, si continuano a leggere consapevolezza dei propri mezzi e convinzione della validità del percorso intrapreso. Fra il decollo misterico (“Oort Cloud”) e il commiato ascetico (sul puntinismo chitarristico à la Earth di “Evening Star” scivola un sax morphinico, indecifrabile) si racchiude il valore ed il senso di “II”, che segue l’omonimo esordio di un anno fa e un EP di raccordo precedente di appena una manciata di giorni. Fornendo una descrizione circostanziata di “Naxatras” eravamo partiti, paradossalmente, proprio con il commento delle sessioni di registrazioni del suo successore, fissando, in virtù di ciò, auspici ed aspettative future: attesa (relativa) decisamente ben spesa.

Il trio greco continua a non inventare assolutamente nulla: la propulsione psichedelica si fa più accentuata, la derivazione blues si disgrega in corpuscoli astrali (ma la stupenda “Sisters Of The Sun”, chiusa da un torrenziale assolo chitarristico che si esaurisce in cristallini accordi AOR, sa ancora di sabbia) e, in linea generale, ai Kyuss continuano ad essere preposti Causa Sui (nella prima parte della lunga “Garden Of The Senses”, frastagliata da scansioni funk, fanno capolino certe tentazioni solistiche à la Earthless, fortunatamente tenute a bada) e Quest For Fire (si prenda “The Great Attractor”: ostinato di basso e sezione chitarristica che divaga con gusto e senso del limite). I dodici mesi intercorsi tra i due full lengths pesano, soprattutto, in termini di scrittura: la maturazione è evidentissima, dalla disposizione dei riff alla gestione delle tempistiche, dalla diversificazione dei suoni alla scelta, oculata, di non spingere mai troppo il piede sull’acceleratore (alla non troppo velata fonte metallica della già citata “The Great Attractor” si contrappone la serenità contemplativa, à la Yawning Man, di “Proxima Centauri”). Migliore qualitativamente (perché più calibrato) e quantitativamente (perché meno sfilacciato, più compatto), il disco mantiene una sua sobria eleganza dal primo all’ultimo minuto.

Siamo solo al secondo atto. Pensate cosa potrebbe venire fuori tra qualche anno…

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