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R Recensione

6,5/10

Meshuggah

The Violent Sleep Of Reason

Più ci penso, più me ne convinco: un disco come “The Violent Sleep Of Reason” non poteva che uscire nell’anno peggiore per il razionalismo occidentale, costretto – dopo anni di colpevole sottovalutazione, di melina masturbatoria e in definitiva pusillanime – a sfidare e confrontarsi coi propri peggiori demoni inconsci (il gentismo, il populismo, l’estremismo politico e religioso) su di un terreno mediatico del tutto sfavorevole. Come se il fantastico zazerkal’e agognato dallo schizoid and industrialized man del ventunesimo secolo fosse, in realtà, la vera tana del lupo: e ogni spiraglio di autonomia perduto in favore delle algide tecnopoleis di nuova generazione facesse, in contemporanea, scattare un ordigno o svuotare un caricatore (in ossequio all’assioma che vuole ogni oncia di progresso inevitabilmente imbevuta di sangue). Il coltello fra i denti, è del tutto evidente, non basta più per tenere lontani i peggiori presagi di un futuro che, di fatto, si è già reificato nel presente, al punto che persino il profetare dei Meshuggah rischia di essere esercizio intellettuale sterile e – gravior – sorpassato dai propri tempi.

Tutta questa frustrazione rende l’ottavo disco in studio del quintetto di Umeå, il primo dal monolitico “Koloss” (2012), un bulicame di tensioni laceranti, uno sfiatatoio infernale. Sono cose che – a ben vedere – si potevano dire anche delle prove precedenti, specialmente quelle successive al fondamentale “I”, ma che in “The Violent Sleep Of Reason” acquistano una valenza ed una forza differenti. Politica fino al midollo, e storicamente inevitabile, è l’ormai celeberrima scelta di registrare in presa diretta l’esecuzione di ogni singolo brano, quasi a rimarcare che a comporre musiche così sfinenti e meccaniche vi siano imperfetti e fallibili cervelli umani. L’azzardo paga sin da subito: “Clockworks” – uno dei brani migliori mai scritti dagli svedesi – è un mattatoio tempestato di poliritmi (Tomas Haake al suo massimo storico) che rotola su mannaie tech-death, solcato da improvvise sventagliate post-core e da un glaciale esercizio di astrattismo solistico ad opera della mano di Fredrik Thordendal (un assolo cristallizzato su progressioni sconnesse, una jazz-fusion criogenica all’ultimo stadio di comunicatività). Eccezionale è anche la finestra heavy-thrash – con qualcosa dei “vecchi” Atheist nell’immaterialità del suono – spalancata su “Ivory Tower”, un anticipo del totalizzante vuoto ambient in cui precipitano gli scompensi metallici di “Stifled” (la perfetta contrapposizione alla fisicità strabordante dei breakdown heavy-funk di “By The Ton”).

È, in sostanza, sempre il solito disco dei Meshuggah. Ma, forse, è anche il disco stilisticamente più vario da dieci anni a questa parte, a partire da quell’“obZen” che accantonava l’esperimento dell’unico flusso di suono di “I” e “Catch Thirtythree” per tornare a scrivere canzoni compiute in loro stesse. Solo a tratti il rifferama si fa così spesso e limaccioso da non far penetrare nemmeno uno spiraglio di luce, in monocrome litanie djent squassate da incisi à la Nevermore (“Nonstrum”) o soffocate in groove inarrestabili (“Born In Dissonance”): Jens Kidman rapsoda frammezzo a disartrie soniche occhieggiate da muraglie di chitarre astrali (i pizzicati di “MonstroCity”), viene sballottato da presse di controtempi (la title track), cavalca rugginose rasoiate thrash (“Our Rage Won’t Die”) e si dimena tra i micidiali compressori doom di “Into Decay” (con finale, ovviamente, aperto). Ogni pezzo è progettato per rivelarsi un dettaglio alla volta, in un gioco all’approfondimento che riavvicina i Meshuggah alla galassia di certo prog metal “evoluto” – se queste classificazioni continuano ad avere un senso. Quel che sbalordisce è che – a un quarto di secolo esatto da “Contradictions Collapse” – la narrazione espansa della band, pur se talvolta intaccata da un po’ di fisiologica logorrea, continua a mostrare uno stato di forma strepitoso: e, d’accordo, “The Violent Sleep Of Reason” non sarà un nuovo “Destroy. Erase. Improve”, ma è solo perché quel disco esiste già.

Prima che la polveriera mitteleuropea saltasse per aria, travolgendo tutti gli equilibri politici mondiali, i protagonisti della Belle Époque nutrivano una sconfinata, illogica fiducia in ciò che sarebbe venuto dopo di loro. Oggi, quando ancora ci riesce, cerchiamo di nascondere le medesime contraddizioni sotto il tappeto di una facciata vagamente presentabile, ma senza più alcuna illusione in un qualche futuro messianico. Se possiamo rendercene ancora conto è, con ogni probabilità, grazie a dischi come “The Violent Sleep Of Reason”.

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