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R Recensione

5/10

The Crookes

Hold Fast

Assolutamente da non confondere con il duo elettronico italiano dei Crookers, la storia dei nostri inizia a Sheffield, città simbolo della scena indie nel nuovo millennio che ha dato i natali a gruppi come Arctic Monkeys, 65daysofstatic e Pulp. La band vede la sua data di nascita nel 2008, riprendendo il nome di un sobborgo della città, quando si incontrano i due chitarristi Alex Saunders (che abbandonerà  il progetto nel 2011) e Daniel Hopewell.

Dopo aver assoldato il batterista Russel Bates e la voce-basso di George Waite, nel 2009 i Crookes vedono pubblicata la loro prima canzone “A Collier’s Wife” in una compilation della Too Pure, etichetta indipendente londinese. Il loro primo Ep titolato “Dreams of another day” con l’etichetta discografica Fierce Panda(che a suo tempo lanciò nel panorama musicali del calibro di Coldplay, Placebo e Supergrass) il cui il sodalizio è presente tuttora, uscirà un anno dopo.L’anno è decisamente proficuo, e la band nel giro di soli quattro giorni si esibisce in ben cinque concerti in Texas  durante il SXSW Festival, facendo lievitare in maniera esponenziale la propria fama.

Siamo nel 2011, e la band decide di fare il grande passo e pubblicare il suo primo album, “Chasing After Ghost” anticipato dal singolo “Bloodshot Days”.Le sonorità sono quelle tipiche dell’alt rock indipendente made in England, con uno sguardo convinto verso i dorati anni '50 pieni di ritornelli e motivetti semplici quanto accattivanti, ma restando ben ancorati alle influenze di Cure e The Smiths, ben riconoscibili in tracce come "Just like dreamers". Molte testate musicali spendono belle parole per i quattro di Sheffield.Un anno dopo la band rilascia nei negozi di dischi il secondo lavoro in studio: "Hold Fast". La formula non è cambiata di molto: solite orecchiabili schitarrate a-là Arctic Monkeys (anche se il paragone tra le due band non è troppo onesto qualitativamente) e rimandi al passato che spazia tra i '60 e gli '80.

Proprio come nell'esordio, l'orecchio dell'ascoltatore è scaraventato in atmosfere dal sapore vagamente (anche troppo) retrò, come dimostrano "The cooler king" e "American girls" (come non preferire le donzelle californiane dei Beach Boys?). "Afterglow" sembra possa essere cantata dai Rooney (ricordate quelli di "When did you heart go missing"?) e "Maybe in the dark" ha il sapore The Strokes. Tutto sembra già sentito e ascoltato decine di volte, e trovare qualcosa di realmente interessante da commentare ha il sapore dell'impresa!

Le idee sembrano davvero esser venute meno in quest’album, nel complesso nulla di inascoltabile, ma l'impressione che arriva è sicuramente quella di mancanza di inventiva e di ripetitività, difetto riscontrato anche nel primo album, ma giustamente perdonato. Il fenomeno musicale Indie è una bolla già scoppiata da un bel pezzo, e tentare di ricalcare fedelmente quelle orme non è sicuramente la scelta giusta, per cui sperimentare qualcosa di nuovo diventa una necessità.  Il rischio di finire nel dimenticatoio è alto, e i Crookes stanno iniziando a scavare da soli la propria fossa.

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