David Lynch
Crazy Clown Time
Scorrevo un po’ a casaccio la lista delle uscite del mese nel frustrante tentativo di tenermi aggiornato e sono rimasto colpito da un nome che urlava dalle colonnine neanche fosse stato vergato con un neon. Sulle prime mi sono detto: “Non può essere lui. Sarà uno di questi gruppetti indie-qualcosa che si attribuiscono le sembianze di uno così famoso per giocare sul contrasto o l’assonanza con le loro idee musicali”. Invece mi sbagliavo. Ho fatto qualche controllo in giro e ho scoperto che dietro al nome David Lynch non c’erano altri che lui: David Lynch. David “Fottuto” Lynch, ragazzi miei. Un paradosso ontologico quasi degno di uno dei suoi film. Che poi era un po’ l’uovo di Colombo, a pensarci bene. Che il geniale regista nativo del Montana fosse appassionato di musica e musicista lo si sapeva da tempo. Come pure è arcinoto che la musica rivesta un ruolo fondamentale nel suo modo concepire una scena o una storia (laddove ce ne fosse ancora una) e che abbia collaborato in varia misura alla stesura delle proprie soundtrack col fido Angelo Badalamenti, ad esempio, o con il pianista Krzysztof Penderecki, per l’ultimo “Inland Empire”. Meno conosciuti erano invece i suoi trascorsi musicali più, diciamo così, privati: come il fatto che avesse scritto i testi dei primi due album della cantante Julee Cruise (colei che cantò la versione vocale del main theme di “Twin Peaks”, fra le altre cose) e un album rock intitolato “Bluebob” nel 2001, a quattro mani con John Neff, dove suonava anche la chitarra o che avesse partecipato a due brani del disco di Danger Mouse e Sparklehorse “The Dark Night Of The Soul” (2010). A compensare questa piccola lacuna arriva oggi “Crazy Clown Time”, il suo vero e proprio esordio solista, se così si può dire.
Un lavoro che definirlo “cinematico” suonerebbe quasi come una presa per il culo. In “Crazy Clown Time” Lynch traspone fedelmente nella grana sonica quelle che da sempre sono le sue ossessioni (o fologorazioni) audiovisive: la ripetitività ritmica come a indurre uno stato di trance vigile e permanente, le circolarità, le specularità,i i doppi, i loop onirici e metafisici (nel senso estetico ma anche spirituale del termine). Questo almeno in astratto, in concreto conferma la predilezione per sonorità che fanno capo agli anni 80 e 90 – new-wave, electro, synth-pop, trip-hop, alt-rock in un accezione country e bluesy – dispiegate in brani costruiti su una base semi-digitale di tastiere, scompaginate dagli echi e dalle folate della chitarra elettrica tutta giocata su twang, effetti e riverberi tipo slide e in qualche caso coronate da una voce robotica e alterata dai flanger: una voce che sembra provenire dal megafono disturbato del regista, deus ex-machina, mentre gioca a drenare il flusso del suo sogno lucido. Un’esperienza perturbante, grottesca, affascinante o irritante, a seconda dei gusti, come quasi tutte le opere –filmiche o non – di Lynch.
Così se la notturna e opalescente “Pinky’s Dream” apre con una dark-wave tirata un po’ alla Siouxsie (cantata da Karen O: l’unica voce intelligibile utilizzata dal regista/musicista), “Good Day Today” e “Stone’s Gone Up” indulgono in un synth-pop dalle cadenze androidi e kraftwerkiane, viceversa “So Glad” (con le voci vetrose e mummificate dalla distorsione), “Noah’s Ark” e “I Know” (echi di stridori industriali e controtempi scolpiti) traslano il trip-hop in una galassia parallela e ucronica dove Bristol non è mai esistita. Sul versante più vicino al rock (o da quel che un simile termine può significare nel pensiero divergente e sterminato di uno come Lynch) spiccano invece la bellissima title-track, sette minuti di blues sotto dilauid dal perimetro ambientale e dal testo semi-pornografico condito da un falsetto pulp e da gemiti fetish, un altro blues in pieno disfacimento sinaptico come quello di “Football Game”, (appena) intonata da una specie di mostro sdentato che sembra uscito dagli incunaboli più morbosi di “Lost Highways”, il sopore arso e deformante, misto di slo-core, noir e non so che, di “Speed Roadster” e “Movin’ On”.
Anche se l’apice lo toccano, forse, due episodi totalmente off come l’encefalogramma dream-gaze della magnifica “She Rise Up” o “Strange Unproductive Thinking” sorta lectio academica sulla cognizione partorita dalla mente sconvolta e drogata dello psicanalista di Laura Palmer.
Filmaker, regista televisivo, attore, sceneggiatore, pittore, designer, fotografo ed ora anche “cantautore” e musicista, David Lynch si conferma una sorta di (post)moderno artista rinascimentale, regalandoci un disco alla sua maniera. Inimitabile, checché se ne dica, nel bene e nel male. Ideale da ascoltare in cuffia - a volume basso e sottocutaneo - nel cuore della notte per mettere in scena il nostro sogno/incubo personale e vedere dove ci porta il subconscio.
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