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R Recensione

7/10

Massimo Amato

Lost Sunsets

Per chi amasse le energie creative più liminali del Belpaese, ecco una biografia che sembra uscita da un’altra epoca, quella di Massimo Amato. Classe 1964, potentino di nascita ma romano d’adozione, dopo una vita di musica ascoltata e collezionata esordisce ufficialmente sul finire del millennio con il monicker Maxloved, con il quale autoproduce tre dischi: è però con la ragione sociale Mono-Drone, attiva dal 2005 con l’affascinante “All Inclusive” (F.M. Records), che il nome di Amato comincia a circolare con maggiore frequenza. Nonostante il guado del decennio successivo veda registrare un’ulteriore svolta stilistica, suggellata dal passaggio al nome proprio (“La Centrale Elettrica” del 2016 e “In The Mood” del 2017, entrambi usciti per Affordable Inner Space), è precisamente nel quadriennio che va dal 2007 al 2010 che prendono forma le composizioni di “Lost Sunsets”, originariamente uscite in una raccolta autoprodotta e oggi rimaneggiate per i due 12” editi da Pregnant Void.

La discrasia cronologica rende giustizia di alcune caratterizzazioni sonore – fra glitch, cut’n’paste e folktronica – di cui si faceva sistematico uso nei primi Duemila e che oggi riecheggiano quasi come suggestioni di un tempo lontano, sebbene, va detto, alcuni prestigiosi act di genere vi facciano esplicito riferimento anche nella loro produzione più recente (un nome su tutti, l’affascinante “Elusive Balance” degli OZmotic). A tratti minato da qualche calligrafismo ambientale un po’ telefonato (i drone di synth su cui scivolano le punteggiature pianistiche della title track), “Lost Sunsets” è comunque un disco solido, che lavora ottimamente di sinestesie ambientali e si scopre particolarmente riuscito nell’atto della performance evocativa: assai centrata la doppietta iniziale, con il rāga digitale di “To Love The Love” che cede il passo ai ghirigori cool della tromba di Massimo Berizzi in un’onirica “Dreaming Of You”, e curiosa l’armonica che sciaguatta nel nestinarstvo sminuzzato e riprocessato di “I Found Love”. Qualche riserva aggiuntiva si può muovere ai pur buoni pezzi ritmati: se i synth cosmic-space del superospite Gigi Masin in “Folksong” valgono da soli il prezzo del biglietto, l’ostinato analogico-sintetico di batteria a prendere le misure degli eterei nipponismi di “Blue Petals” poteva e doveva essere reso con maggiore gradualità.

Complice anche una costruzione perfettamente circolare (la voce femminile di Imi Gavin interviene sia sulla glitchedelia di “Intro – Time Capsule” che sulla fluttuante reverse guitar fennesziana di Mario Fob in “Outro – The Red Carpet”), l’ascolto di “Lost Sunsets” sembra terminare in un battibaleno. È un segno positivo: depeche mode, ma nel senso più nobile del termine.

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