R Recensione

7/10

Zenerswoon

Frames

A volte capita di non seguire i propri precetti, le regole che da solo hai stabilito di dover seguire. Come quella di non leggere mai l’introduzione prima di aver letto il libro. Come quella di non corrompere il gusto del primo ascolto con presentazioni scritte e opinioni in rete.

Errore grosso, perché dopo aver scorso i nomi di Pink Floyd e Crosby Stills Nash and Young le aspettative erano del tutto fuori strada.

L’unica cosa giusta che si può trarre dalle varie cose che circolano sui Zenerswoon è un atteggiamento assolutamente deciso. Il “power trio” di Firenze fa orgogliosamente sapere che, dalla loro nascita (1998), suonano sempre canzoni proprie. Dopo aver vinto il Rockcontest di Controradio (chi dice “che è?” passi da Firenze e verrà punito con simpatia pisana), superato le selezioni regionali dell’Arezzo Wawe Love Festival (chi dice “che è?” continui a guardare MTV e cercare recensioni musicali su Tex) e pubblicato il disco d’esordio There in the sun (2004) il gruppo si è messo in proprio.

Loro, che non si son mai messi a fare il gruppo-copia di nessuno, da questo disco vantano un’etichetta a proprio uso e consumo (la Nowherez records), strappando la collaborazione di Giulio Bavero (noto ai più con i Teatro degli orrori) per la registrazione e il mixaggio.

Insomma trovare concittadini che dimostrano cotanto carattere è sempre un bel vedersi.

Sul piano musicale siamo invece davanti a una prova, seppur buona, non altrettanto osata. Rispetto al lavoro precedente le coordinate sono rimaste le stesse; filone Motorpsycho-dEUS unito a suoni anglofoni anni ’60-'70.

Convince ancora l’espressione soft giunge, usata da qualcuno nel 2004. Detto questo si fatica a ignorare i passaggi legati al brit-pop e i coretti alla Beach Boys.

Si varia da atmosfere aggressive (spiders) a intermezzi elettronici (still mad about me), passando per la durezza d’apertura di freedom now! e la calma distesa di greta.

Qualche parentesi di sperimentazione inattesa (più che piacevole) si ritaglia lungo le 9 tracce, senza mai intaccare un organicismo che ne è limite e vanto.

La cornice e infrangibile, di materiale melodico e accuratamente semplice (una sorta di labor limae).

Diciamo che il disco si presenta come lavoro monolitico a due facce. La prima mossa da un sentimento che ricorda la rabbia del noise, l’altra volta a richiamare l’innocenza dell’indie.

D’altro canto questo trio lo dice in modo molto esplicito; l’obbiettivo non è stupire con chissà quali giochi di prestigio ma smuovere emozioni in profondità.

Fa sorridere che in giro molti si impegnino a sottolineare come il lavoro sia del tutto al di fuori dei suoni tipicamente italiani. Quasi che dire “non sono italiani” sia il miglior complimento da fare.

Certo il mondo anglosassone (anni ’60-‘70 per gli USA e ’90 per la Gran Bretagna) è il principale padre-padrone, così come il cantato è in lingua inglese, ma un minimo di sentimento cosmopolita farebbe bene a tutti.

Al di là dell’ascolto di questo lavoro (più che valido), il consiglio è goderveli in sede live.

Un buon lavoro, piacevole e convinto di quel che ha da dire.

Buona la prima, buona la seconda.

Non è cosa da tutti.

V Voti

Voto degli utenti: 5/10 in media su 1 voto.
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