Interpol
El Pintor
Rosso e nero portano di nuovo bene agli Interpol. Che ormai erano come quegli amici che ti paccano sempre agli appuntamenti, a cui non dai più alcuna fiducia; li inviti, mandi loro un messaggio tanto per sentirti in pace con la coscienza, tanto non si faranno mai vivi, ma magari speri che prima o poi si presentino. Proprio come un ascoltino agli Interpol era impossibile rifiutarlo, benchè (parere personale e forse non popolarissimo) non abbiano imbroccato un disco veramente degno di nota dopo lesordio.
Consideriamo anche tutte le attenuanti del caso; che non è facile ripetersi quando si esordisce con un capolavoro, che Turn on the Bright Lights è stato uno spartiacque musical-generazionale (perdonatemi il termine) imbevuto di alienazione metropolitana della New York post 11 Settembre, che almeno una manciata di pezzi fra il buono e il clamoroso li si poteva ascoltare in tutte le uscite successive, ma la pazienza era ormai agli sgoccioli (vedi disco omonimo del 2010).
E invece, dopo quattro anni di assenza (direi necessari, a questo punto) gli Interpol si sono presentati allappuntamento ed anche con un lavoro niente male. Talmente niente male che la sorpesa rischia di farci essere troppo buoni col giudizio. Orfani del bassista Carlos Dengler, la formazione ridotta a trio (Paul Banks prenderà in mano le quattro corde) ha dovuto per forza di cose semplificare il proprio suono.
Il risultato sono canzoni più dirette (gli stati catatonici privi di ispirazione dei due album precedenti sono miracolosamente assenti) dove la chitarra, impossibilitata a riproporre gli interplay caratteristici (ah, che cosera Obstacle 1) copre gli spazi tramite frasi tutte giocate sulle corde alte (molte delle quali di pregevole fattura e capaci di farsi ricordare sin dal primo ascolto), i riverberi a palla, e poi via in accelerazione e basso distorto nei ritornelli. Ho appena descritto, in pratica, il singolo e opening-track All the Rage Back Home, il più potente dai tempi di Slow Hands e scusate se è poco. Strofa elegiaca e ritornello sferragliante: la prima sorpresa dellalbum.
I buoni spunti sono un po ovunque: la linea melodica di My Desire al tempo stesso 100% Interpol e fresca, come lincipit vagamente jazzy di Same Town, Same Story che poi si sviluppa su uno strano andamento funkeggiante, tirato un po per le lunghe, vero, ma è quanto basta per ravvivare un marchingegno sonoro che ormai girava a vuoto. Non ci si stanca subito neanche dei pezzi usciti in anteprima (Anywhere, il classico pezzo di cui riconosci all'istante i compositori e Ancient Ways) e tengono persino i pezzi più lenti (Twice As Hard), dimostrando una ripresa proprio laddove i nostri avevano peccato di più nel recente passato. Finalmente la ricerca del pathos ritorna ad essere un parte della costruzione del brano, invece che il fine ultimo.
Piccole illuminazioni salvano dalla mediocrità alcuni episodi (il ritornello minimale ma dalla progressione indovinata di My Blue Supreme). Forse lo status di riempitivo lo possiamo affibbiare solo a "Everything Is Wrong", che cerca una tensione emotiva irraggiungibile e a "Breaker 1".
(Nota a margine: al termine di Breaker 1 si ascolta un discorso in italiano, con forte accento siciliano mai avuto malasorte, dio santo, malasorte, e se mi consentite non uso i termini, io, di vittimismo, di persecuzione, che a voi so che non piacciono. Si attendono chiarimenti.)
Che dire, continuare ad aspettare un nuovo Turn On The Bright Lights è ormai privo di senso e anche se doversi accontentare è sempre un po triste, non è mai stato così facile. Bentornati, ora non sparite di nuovo.
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