This Heat
Deceit
“Io sono contro i sistemi: l’unico sistema ancora accettabile è quello di non avere sistemi.” (Tristan Tzara, 1918)
“Sleep, sleep, sleep, go to sleep…” Le trame acustiche di un folk espressionista invitano la sonnolenta coscienza collettiva a non svegliarti. Continua pure a dormire sul lettino del Dottor Caligari, e spera che questo calore non aumenti la temperatura del termostato spazzandoci via tutti. Siamo topi in gabbia, come la sagoma di Henry Spencer che scolorisce tra il fumo esalato nelle strade da chissà quale fogna. Se i tuoi giorni sono infestati da sanguinanti polli meccanici e un figlio-rapa in coma irreversibile non sarà certo un “nuovo tipo d’acqua” a salvarti dall’inganno del potere e dei mass-media, a fermare l’inquinamento dei corpi che ci circonda. La tua vita è un incubo dada e non lo sapevi, Henry.
Lo spirito avantgarde e corrosivo che animava i frequentatori del Meitrei Bar di Zurigo avrà lasciato i suoi semi cattivi anche nei due Charles, Bullen e Hayward (proveniente dal prog dei Quiet Sun), membri fondatori nel 1975 del primo nucleo dei This Heat in quel di Camberwell. Con l’arrivo del bassista e abile manipolatore di nastri Gareth Williams la base operativa del trio diventerà l’emblematico “Cold Storage”, una vecchia cella frigorifera adibita a studio di registrazione nei pressi di Acre Lane, Brixton. Tre anni dopo l’autoprodotto “This Heat” destruttura e prende a coltellate il pensiero rock borghese, un cinico serial-killer kingcrimsoniano che scuoia la forma canzone con le dissonanze e i cut’n’paste di voci apatiche, chitarre ipertese, viole, tastiere e percussioni decostruite da Bullen e soci, discepoli dell’ala new-wave oltranzista dei Faust, Residents e Pere Ubu. Chi nasce tondo non muore quadrato, e viceversa: i This Heat, fieri non-musicisti allenati alla palestra filosofica dell’amico guru di Woodbridge, sperimentavano complesse tessiture musicali stratificate e un uso pionieristico dei campionamenti attraverso una primitiva tape-manipulation, quando i giochini pro-tools erano pura fantascienza e la tecnologia a disposizione antidiluviana.
“…We finance clinics to research a cure for cancer, our least vague fear. A new kind of water, a new way of breathing. Always somehow a wonder cure all turns up when we need it, we've got men on the job…”
Il minaccioso collage sulla cover di “Deceit”, che in piena psicosi da guerra fredda assembla pezzi di Reagan, funghi atomici, Khrushchev, mappe militari e Leonid Brezhnev, è un bel trailer all’atmosfera “day-after” e plumbea del disco. Prodotto con David Cunningham per Rough Trade negli studi Cold Storage, Zipper Mobile e Surrey Sound (fondamentale il contributo dei tecnici Martin Frederick e Peter Bullen al missaggio studio\live e nastri), la seconda opera del progetto This Heat rimarrà l’ultimo e definitivo manifesto di un’arte contaminata fra estrema ambizione intellettuale e violento istinto iconoclasta punk.
“…History repeats itself…”
L’inganno sonico di Bullen, Hayward e Williams è una parentesi quadra al cui interno puoi trovarci un fottio di quelle curiose formulette inesplorate nel futuro vocabolario dei piccoli boyscout rock: il math, l’industrial, l’hardcore dissezionato, il post-qualunque cosa e le dannate equazioni paramusicali che fanno la gioia degli avatar scaruffiani. “Deceit” avrà un impatto pazzesco sulla musica underground meno allineata degli ultimi decenni (qualche nome? Virgin Prunes, Mission Of Burma, Einsturzende Neubauten, la bestialità primordiale dei Jesus Lizard, Shellac e i figliocci Liars), in virtù di un suono ancor oggi impressionante e chirurgico che alterna epiche aperture di melodia a claustrofobiche paranoie suburbane. Cantilene sul filo del non-sense che fanno girotondo, tra le macerie della società post-industriale, dentro la fragile dissociazione di un allampanato Jack Nance\Henry (gli strumenti a corda della narcotica “Sleep”, un’ipotesi di Mark Stewart travestito da vescovo magico) e spalancano porte ignote sull’insignificanza dell’uomo prefabbricato. Ascoltare per credere la tribale danza moderna degli insetti rumoristi in “Paper Hats”, sventrata al minuto 2’36’’ da un buco nero beefheartiano che capovolge improvviso in cerchi di note post-rock (toh, i Tortoise), il fangoso Brian Eno internato a Dachau nella no-wave terzomondista “Cenotaph”, i loop cigolanti e l’organetto spastico del delirante cabaret mitteleuropeo “Triumph”.
“Amo, amas, amat, amamis, amatis, amant…We are all romans, unconscious collective. We are all romans, we live to regret it. We are all romans and we know all, about straight roads. Every straight road leads home, home to Rome…”
La proverbiale “S.p.q.r.” attrae e respinge nel dialogo incalzante di sincretismo wave e cori massimalisti, mentre frasi di chitarra disconnesse fanno tabula rasa della retorica opprimente dell’Impero e celebrano l’inadeguatezza del presente in un’elegia funebre senza alternative. I This Heat hanno la fredda lucidità necessaria per decifrare un sistema al collasso e sull’orlo d’una crisi nervosa, con l’atomica a fare l’arbitro-bilancino in un risiko per folli: remember “Hi Baku Sho (Suffer Bomb Disease)” e lo spettrale paesaggio nuclearizzato di “Little Boy” su Hiroshima, le scorie magnetiche di “Radio Prague”, il funk cerebrale e radioattivo dell’orgiastica “Makeshift Swahili” (l’orrore, baby, l’orrore nell’urlo munchiano e infernale di Williams). Presagi apocalittici appena diluiti nell’esotismo oscuro di “Indipendence”, un disilluso sogno etno-world che fa viaggiare John Lydon a Canterbury tra flauti e tamburi orientali. Suonano campane a morto su desolati scenari di un ordine economico imploso: forse è il solito inganno che i gas tossici diffondono ancora nell’aria, il vapore acido che si restringe e avvolge maligno nei polmoni (le sovraincisioni epilettiche di “Shrink Wrap”). Oltre l’amaro calice del malsano art-rock “A New Kind Of Water”, disperato e travolgente anthem irregolare d'un Occidente disumanizzato (epocale l’impetuosa batteria di Hayward), l’alba rischia di somigliare a inquietanti donne nel termosifone con la testa deforme e il cinguettio blues di Rosa Russo Iervolino. Poi scenderà il buio, a cancellare il sonno dei nostri cervelli per sempre.
“…Don't look a gift horse in the mouth, don't bite the hand that feeds you… You can have your cake and eat it… It's an expanding universe.”
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