Volcano!
Paperwork
Nomen omen.
Che cosa ci si può aspettare da un terzetto chicagoano, sotto Leaf etichetta inglese , riunito sotto un monicker, v minuscola e punto esclamativo compresi, che è tutto un programma?
Qualcosa di esplosivo.
Tre anni. Tre lunghi anni. Tanto si è dovuto aspettare, con ansia ed attesa liturgiche, per poter accogliere al meglio il ritorno di Aaron With, Sam Scranton e Mark Cartwright. Tre anni per poter dare un seguito a Beautiful Seizure del 2005, capolavoro di proporzioni vicine allimmane, un incredibile collage di rumore e melodia, spesso sovrapposti fra loro, fra noise rock e Radiohead, Parts & Labor quelli più cattivi- e tube, compulsive frenesie riscritte con lapparire di una grottesca forma/canzone, poetiche sospensioni dilatate minuto per minuto e poi, con noncuranza, sbrindellate da un fluire prepotente di impudicizie soniche. Un OK Computer della Grande Mela. O, semplicemente: un nuovo classico. Tre anni per consegnare i volcano!, infine, alla storia del rock di inizio millennio. Con opzione per le decadi precedenti.
È dunque cosa importante cercare di sgomberare, da subito, il campo di dubbi ed ipotesi fra le più varie. Qui non sè ad Albione, dove mediocri esordi vengono fatti passare per dischi dellanno e, dopo poco tempo, ancora meno apprezzabili seguiti, dettati da tensione e costrizione, segnano la fine di centinaia di band luna lo stampino dellaltra. Qui non esiste lo scoglio del secondo disco (ma, alla fin fine, che ostacolo sarà mai? Peggio degli omerici Scilla e Cariddi?). Qui si fa musica sul serio, e quando la faccenda diventa seria solo i più bravi riescono ad andare avanti. Per questi ed altri numerosi motivi Paperwork, seconda fatica dei volcano!, è un altro strike deflagrante.
La ricetta, nonostante il passare del tempo, è più o meno quella di sempre: rifiuto dello schema tipico della canzone tradizionale, ampissimo parco di strumenti utilizzati (dai classici chitarra/basso/batteria/sintetizzatore ai meno opzionabili tuba, sax e percussioni do it yourself), tonnellate di distorsioni elettr(on)iche che piombano fra capo e collo senza preavviso, grande malleabilità della voce di With, capace di passare dai toni quieti e piagnucolanti del Thom Yorke più introspettivo a vere ed autentiche isterie teatrali, una più che ottima tecnica strumentale che, altro punto a favore, non si traduce mai in esercizio di stile ma, anzi, fa da collante fra i vari segmenti dei pezzi. In ogni caso, tre anni non sono passati a torto: il già notevole bagaglio dei Nostri si è ulteriormente incrementato, con nuove influenze, nuove capacità e nuova voglia di rimettersi in gioco.
Inutile fare gli indifferenti, inutile cercare di essere obiettivi a tutti i costi, perché già dallapertura non si può far altro che lasciar sfogare un enorme sorriso: in Performance Evaluation Shuffle, militaresca marcetta ben stravolta dai farseschi sibili del sintetizzatore, il cantante gigioneggia e si destreggia a fare il crooner della situazione. Un Sinatra calato nella Grande Mela, una Singin In The Rain riveduta e corretta Version 2.008, insomma. Esilarante e, quel che più importa, veramente bella.
Ma siamo solo allinizio: se pensiamo di averli capiti fino in fondo, i volcano!, saremo storditi dalla cascata di idee che da qui fino alla fine di Paperwork piove copiosa e si disperde, fra mille rigagnoli diversi, in lungo e in largo per tutti i brani. Ecco ad esempio il singolo, geniale, Africa Just Wants To Have Fun, poliritmico etno-rock dalle imbeccate funk, trascinante e avvolgente, che si apre con un muro di suono invidiabile e, pian piano, cattura con i suoi passaggi catchy e orecchiabili: Fairy Tale, disgregante terremoto noise con una batteria che viaggia a mille su tempi dispari potenzialmente mortali, sotto una pletora infinita di giochi vocali; Palimpsests, posta in fondo, sembra a tratti unouttake di Kid A, con divagazioni chitarristiche semplicemente da standing ovation.
E poi ritornano, inevitabilmente, sprazzi di Beautiful Seizure, il che non significa affatto girare la testa dallaltra parte schifati, ma lasciarsi trasportare da un flusso di musica tanto intenso quanto concentrato, e difficile da scindere. Tension Loop ricorda un po $40.000 Plus Interest per la sua immensa forza evocativa, fatta di sola voce e che voce-, timida chitarra e lieve risacca ambientale in sottofondo, quasi a ricordare unancorata dimensione terrestre alla poetica del momento. Anche i momenti più frammentari e fracassoni rimangono quelli che ricordavamo: 78 Oil Crisis si erge faticosamente su flutti di controtempi, salvo poi lasciare spazio ad un finale strumentale a dir poco domestico, ricco di strumentazione assolutamente non idonea: Sweet Tooth tamburella con pirotecnie elettroniche da sfascio uditivo, potenti e proliferanti, in un noise rock talmente divertente e divertito da coinvolgere allistante, volente o nolente.
Infine, ascoltando laccartocciato nonsense di Kitchen Dance, con le tastiere che fischiano e rombano, lascolto di Paperwork si chiude. E un velo di nostalgia cala sulle palpebre: la giostra sè interrotta proprio mentre ci stavamo divertendo come dei pazzi. Via con un altro giro, che ne dite?
Forse, i volcano!, non se ne sono ancora resi conto ma, oramai, stanno diventando una delle band rock migliori del Nuovo Millennio. Che sia il caso di tenerlo nascosto per molto, ancora?
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