Magnetic Fields
69 Love Songs
Essa mi è sacra. Ogni brama in sua presenza si acqueta.Io non so mai rendermi conto di me stesso quando le sto vicino; è come se l’anima mi si tramutasse in ogni fibra. […] Io la vedrò! - così dico al mattino, quando mi desto e con tutta letizia rivedo la bella luce del sole - io la vedrò! E per tutto il giorno non desidero altro. Tutto, tutto naufraga in questa speranza. […] Ho tante cose, e il sentimento per lei le assorbe tutte; ho tante cose, e senza lei tutto mi è nulla.
J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther
Qualcuno di noi non conosce l’amore? Sembra strano, ma forse è possibile: nella sua forma più pura è un privilegio riservato davvero a pochi. E sul fatto che sia un privilegio poi si può discutere, visto che a tanta indicibile gioia spesso fa seguito altrettanta amarezza e disperazione. Da sempre l’amore è comunque considerato il sentimento “alto” per eccellenza, in tutte le sue variegate forme, ognuna ugualmente nobile, ed i più grandi artisti dalla notte dei tempi hanno cercato di sondarne le profondità ed i misteri. Tanto che non vedevo come alla fine del secondo millennio si potesse immaginare una nuova forma da dare a questa ricerca…
Stephin Merritt è l’uomo che sta dietro al progetto Magnetic Fields. Stephin Merritt è un uomo che deve sempre stare dietro a qualcosa. Che il paravento si chiami Magnetic Fields, 6ths, Gothic Archies o Future Bible Heroes, l’importante è che sia funzionale al suo mimetismo. C’è un che di timido e di introverso in questo suo convivere con il ruolo di pop star, c’è quel carattere di altera riservatezza che spesso accompagna i personaggi dotati di eleganza, sensibilità e sicurezza. Stephin Merritt è uno dei maggiori geni melodici contemporanei, uno che del pop conosce ogni scheggia e che con ognuna di quelle schegge ha saputo e sa costruire meraviglie. Nato a Boston nel 1966, vissuto poi fra Hawaii, stati del sud-est e persino Germania, crebbe in condizioni familiari quantomeno particolari. Il padre, che non conobbe mai, era il cantante folk Scott Fagan, mentre la madre, che spiccava per la natura fricchettona e irresponsabile, lo allevò a suon di concerti psichedelici e lo iniziò alla bruttezza della vita attraverso frequentazioni varie quanto assidue di giovani uomini disponibili. L’instabilità del focolare domestico non impedì al giovane Merritt di appassionarsi alla musica pop, di cui fu vero cultore fin dall’adolescenza. Fu a Boston che nel 1989 fondò, insieme all’amica Claudia Gonson (batteria e tastiere) i Magnetic Fields.
Il trasferimento a New York (dove Merritt si propose anche come critico musicale) fu fondamentale per lo sviluppo e l’affermazione del suo linguaggio. Un linguaggio universale, che racchiude decenni di storia della musica, andando ad abbracciare addirittura compositori classici dalla spiccata vena melodica (penso a Shubert su tutti) nonché generi musicali e teatrali quali l’operetta o il musical. La lista degli artisti che con la loro musica ammaliarono ed influenzarono il nostro genietto è lunga e molto variegata, e per stilarla basterebbe ascoltare uno qualunque dei suoi dischi per intero: sono concentrati di cultura classica frullata in contenitori sintetici. L’eleganza e la perfezione delle melodie, la poetica e l’ironia dei testi, trovano solide basi in arrangiamenti scarni eppure sontuosi, in costruzioni brevi ma sorprendenti.
69 Love Songs è considerato, insieme con il precedente The Charm Of The Highway Strip (Merge, 1994), il capolavoro dei Magnetic Field. Ma 69 Love Songs, pur non raggiungendo forse mai l’intensità di The Charm Of The Highway Strip, è qualcosa di più e qualcosa d’altro. Narra la leggenda che Merritt si trovasse in un bar di Manhattan, abitualmente frequentato, quando fu folgorato dall’idea di un musical senza apparente trama e composto da 100 brani incentrati sul tema dell’amore. Una vera e propria sfida alla storia del pop, che nell’amore ha sempre trovato il principale ispiratore e in molti casi l’insidia terribile della banalità. Portando la sua visione nella realtà Merritt ridusse il numero delle canzoni ad un più abbordabile e comunque più esplicito 69. Numero erotico per eccellenza, divisibile in tre dischi da 23 brani ciascuno. Perfetto.
Occorrono quattro anni perché 69 Love Songs faccia la sua comparsa negli scaffali dei negozi ed inizi la sua ascesa alla categoria del “mito”. Ascesa complicata, visto che il disco, uscito inizialmente in tre volumi separati, rischiò di passare inosservato. Ristampato in un unico cofanetto nel 2000, sarà a partire dal 2001 che il pubblico inizierà davvero ad innamorarsene.
E questo compendio sull’amore merita davvero l’amore di chi lo ascolta. Sembra un frutto alieno, o la testimonianza dei Padri del genere umano. Come si fa a tenere in mano una tale massa di creazione? Pare incredibile, ma c’è. E già vederlo lì fisicamente, fra le dita, stimola il pensiero e la riflessione, regala quel senso di gratitudine che sentiamo di dovere verso i maestri. Poi lo ascoltiamo e crederci diventa un po’ più difficile. Sono 69 canzoni d’amore, come promesso. Il fatto è che non ce n’è una brutta, oggettivamente. Forse potremo pensare che la scrittura qua e là manchi un poco di ispirazione, sia leggermente claudicante o ripetitiva, si basi troppo su regole e intelligenza piuttosto che su puri voli dello spirito. Vero. Ma sono certo che tante delle cose su cui potrei avere da ridire sono il particolare preferito di qualche altro ascoltatore. C’è talmente tanto qui dentro che sicuramente c’è qualcosa di meraviglioso per tutti. E la varietà degli strumenti impiegati certifica questa verità. I compagni di viaggio di Stephin Merritt, la solita Claudia Gonson (qui magnifica anche alla voce), il violoncellista Sam Davol (nel combo a partire da Holiday, Feel Good All Over, 1993) e il chitarrista John Woo (anche banjo e mandolino) fanno ottimamente la loro parte, ma spaventa il numero degli strumenti suonati da Merritt, di cui l’ultima pagina del libretto ne contiene l’indicibile e umiliante lista.
La stessa varietà si ritrova in ogni prospettiva di approccio al disco. Se si guardano i generi, ci sono tutti quelli che nell’ambito pop hanno trovato applicazione: classica, folk, electro, synth, dream, shoegaze, new wave, psichedelica, vaudeville, chamber, punk, surf, blues, jazz e chi più ne ha più ne metta. La durata dei pezzi va dai 27 secondi ai 5 minuti, per una media di 2 minuti e mezzo a canzone. Se si ascoltano i testi ci si troverà a ridere di cuore o sorridere teneramente, a piangere di commozione, rabbia o nostalgia, a riflettere sui paradossi e gli enigmi del sentimento più incensato universalmente. Gli arrangiamenti vanno dall’austerità del primo Leonard Cohen alla complessità sinfonica di un Van Dyke Parks o un Brian Wilson passati sotto il filtro Spectoriano. Il tutto sempre mantenendosi nella dimensione intima di un piccolo ensemble da camera.
È in questa strabiliante fusione di cinquant’anni di musica pop che risiede il segreto di 69 Love Songs: un’opera che potrebbe sembrare un suicidio artistico, il delirio di un megalomane, il trionfo dell’autocompiacimento e che invece risulta delicata, fresca, a tratti irresistibile, sicuramente irrinunciabile ed immortale.
Si capisce che un’analisi del lavoro brano per brano è fuori discussione, ma anche il più pigro recensore credo non resisterebbe alla tentazione di segnalare qualcuna delle gemme contenute qui dentro. Non si può seguire un filo logico o attribuire ad ognuno dei tre dischi un ruolo particolare, così come non ci sono singoli o pezzi “minori”, ma solo una sequenza folle di esercizi di stile. Tutto si sussegue apparentemente alla rinfusa, alternando ironia e gusto per l’assurdo a terribili drammi di difficile accettazione. In I Don’t Believe In The Sun il sole è svanito insieme con la persona amata. Poco dopo gli svolazzi e le incertezze del cuore sono un pollo con la testa mozzata nella divertente A Chicken With Its Head Cut Off. La tenerezza di Come Back From San Francisco è tutta nel ritornello “You need me like the wind needs the trees to blow in / Like the moon needs poetry you need me”, cantata come un pezzo dei Low, ma in modo infantile ed ingenuo. Splendida e commovente la melodia della successiva The Luckiest Guy On The Lower East Side, dove la fortuna è semplicemente quella di avere un mezzo con cui farsi un giro in compagnia della ragazza dei sogni, pur restando il ragazzo più brutto del quartiere. E il sesso è il tema della surfista Let’s Pretend We’re Bunny Rabbits, quel sesso permanente e prolifico che per tutti appartiene in primis ai conigli. The Book Of Love è un altro brano tenero dalla grande melodia. Recentemente ne ho sentito una versione di Peter Gabriel che è nella colonna sonora di un filmaccio americano strappalacrime. La stragrande maggioranza della gente pensa che il pezzo originale sia suo. Lou Reed e i Suicide si mischiano nella spassosa Fido, Your Leash Is Too Long mentre gli anni ’50 sono lo sfondo per la struggente My Sentimental Melody. C’è il piccolo jazz di Love Is Like Jazz e l’amore omosessuale della stupenda When My Boy Walks Down The Street; l’amarezza e la rabbia ispirano Very Funny e la melodia di No One Will Ever Love You, mentre il banalissimo concetto del “se non piangi non ci tieni” è magnificamente espresso in If You Don’t Cry. World Love, dove spicca in italiano la frase “viva la musica pop”, è l’omaggio alla world music di Paul Simon. Washington D.C. è ancora geniale, per dolcezza, intuizione (“Washington D.C. it’s paradise to me / It’s not because it is the grand old seat of precious freedom and democracy / no no no / It’s just that’s where my baby lives, that’s all”) e musicalità (coralità da tifo sportivo in un college americano). I genitori stravaganti e la condivisione di un’infanzia difficile servono ad avvicinare gli amanti nel folk di Papa Was A Rodeo. Underwear ribadisce la supremazia dell’amore solo attraverso l’immagine di bei ragazzi e ragazze in mutande e la frase in francese “La mort, c’est seulement la mort / mais l’amour, c’est l’amour”. Si ride con The Death Of Ferdinand De Saussure e ancor più con Yeah! Oh, Yeah! (“Are you reaching for a knife? Could you really kill your wife? Yeah! Oh, Yeah!”), che peraltro è una splendida ballata. Strappano sorrisi anche la folle Punk Love (il testo è: punk love /punk rock love, fine) e la “sperimentale” Experimental Music Love (il testo è: experimental music love, fine). Odio e amore convivono in I can’t Touch You Anymore mentre la successiva Two Kinds Of People è categorica: “There are two kinds of people: a) my love and I b) others”. In How To Say Goodbye la nostra ragazza è un disastro in tutto, ma a dire addio è la più brava al mondo. Zebra chiude il lavoro e ci mostra come la nostra amata, nonostante i doni e le attenzioni che le dedichiamo, avrà sempre la tendenza a desiderare qualcosa di più (“So we got married in Venice in June, so what? We circled the Earth in a hot air balloon, so what? […] I want a Zebra”).
Si prova un senso di vago smarrimento al termine di queste quasi tre ore di musica. Un ascolto leggero e al contempo articolatissimo che risulta disarmante. Impossibile non imbattersi in almeno un episodio che ci rappresenti, e impossibile non cogliere con quanta precisione vengano raffigurate le mutevoli e note facce di un unico impareggiabile sentimento. Impossibile poi non nutrire un profondo rispetto per l’artefice di tutto questo.
69 Love Songs racchiude la storia del pop romantico in unico lavoro che è anche un’enciclopedia dei generi e degli autori. Decenni di musica che vanno dalla classica al jazz, da Elvis alla coralità dei Beach Boys, da Serge Gainsbourg alla tradizione americana di Burt Bacharach, Donovan o Scott Walker, dalla perfezione melodica degli ABBA alla teoria del distorto dei Jesus And Mary Chain, dal folk di Dylan al pop degli XTC, dall’elettronica dei Kraftwerk fino al synth-pop di David Sylvian e Human League.
69 Love Songs è l’opera più ambiziosa di uno dei più grandi arrangiatori contemporanei. È un’opera definitiva, senza precedenti e non più ripetibile. Avere conosciuto l’amore vuol dire trovarne qui almeno un ritratto perfetto. Se c’è un motivo per cui il pop bene o male piace a tutti, lo troverete qui con prepotente evidenza. E se invece siete fra quelli che va bene tutto basta che non sia pop, compratevi questo disco: se non siete malati cronici cambierete idea. Fare pace con i luoghi comuni a volte può essere salutare.
Tweet