R Recensione

8/10

Mauve

Kitchen Love

E quando meno te l’aspetti trovi che risposte importanti per l’evoluzione del post-rock possono arrivare anche da casa nostra. E sono risposte consistenti, non c’è che dire. Non salvifiche come l’ultimo disco degli A Silver Mt. Zion ma sicuramente efficaci sulla scia degli ultimi dischi di Giardini di Mirò e Mogwai.

Si parla dei Mauve, trio piemontese all’esordio sulla lunga distanza con questo Kitchen love che impressiona per freschezza e varietà compositiva. Niente di rivoluzionario sia chiaro, ma a modo loro i Mauve sviluppano una piccola intrigante idea: fondere l’attitudine canzoniera indie-rock con sonorità post-rock più o meno classiche, avventurandosi per giunta in maniera avvincente in territori impervi come il noise, una psichedelia spaziale e un leggero math-rock.

La partenza è affidata a 88, rock votato a ritmi ballabili dalle chitarre fragranti che riporta alla mente gli energici vortici dei primissimi Six by Seven. Jaguar, we have to go è invece una ballata morbida condita di accelerazioni e progressioni psichedeliche poderose. Di fatto è l’incontro perfetto tra l’indie-pop e un post-rock particolarmente visionario.

L’influenza dei Giardini di Mirò è abbastanza consistente, come dimostra anche l’intimistica Last B., tuttavia non mancano altri referenti importanti come i Sonic Youth che si ritrovano in formato soft nelle fughe di Santiago e nel formato più classico (periodo Goo) in Canterbury, dove sembra davvero materializzarsi la figura di Thurston Moore.

È un noise sottile ed elegante quello che affianca le progressioni post-rock nel morbido pop etereo di Fake Youth (only silence). Sono momenti leggeri davvero intensi (così come la tenera Electronic scales) che vanno a equilibrare ottimamente i deliziosi rimandi di un post-rock prezioso: così la parodica (per il titolo sbeffeggiante i Mogwai) Edimburgo Mega-panda viaggia impeccabilmente tra Slint, Mogwai e Explosions in the Sky, mentre il delizioso strumentale Sean Connery barcolla tra noise e ritmi scanzonati alla Clap Your Hands Say Yeah!.

Peccato forse per Never regret, momento semi-acustico che parte in maniera delicata per poi partire con piglio deciso in una progressione che promette sfracelli ma che si spegne sul nascere. D’altronde è anche questo un modo per aggiornare le regole del post-rock e per stupire l’ascoltatore, evitando di ricadere nelle risacche del genere: prolissità e prevedibilità.

E d’altronde non gli si può proprio dire niente ai tre ragazzi quando un attimo dopo parte Butter e si rimane avvolti da una squisita psichedelia tipicamente 70s. Il post-rock si tramuta in space-rock acido, allucinato e cinetico con una accelerazione alla batteria di Elda Benfanti davvero notevole. Si chiude così, in bilico tra mostri sacri anglo-sassoni (Pink Floyd, Hawkwind) in vacanza nelle accoglienti terre kraute (Ash Ra Tempel, Amon Duul 2) alla ricerca di una psichedelia ormai (quasi del tutto) perduta.

E si rimane con l’impressione che Kitchen love sia un lavoro davvero notevole e meritevole di attenzione. Nonché decisamente sopra la media (italiana e non).

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 3 voti.
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REBBY 6/10

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