R Recensione

6/10

Humus

Popular Greggio

Complice il susseguirsi sovrapposto di troppi ascolti, complice la frenesia improcrastinabile della quotidianità, si rischia di prendere sotto gamba o di giudicare sommariamente opere meritevoli di ben più ampia attenzione e approfondimento. Ammetto di aver ascoltato Popular Greggio frettolosamente, e di averlo bollato immeritevole della mia attenzione: tedioso, lungo, piatto, derivativo. La solita minestra pseudo-folk nomade, i soliti nuovi Manu Chao italiani destinati al dimenticatoio con leggera disinvoltura.

E dire che gli Humus, sin dalla fertile ragione sociale, passando dal titolo e dalla bella copertina dell’album autoprodotto, mi avevano incuriosito, ma quel disco nello stereo della mia macchina ci è rimasto ben poco. Al momento della recensione m’impongo di eliminare i preconcetti, e di abbandonarmi ad esso, dovendo ammettere che mi sbagliavo: Popular Greggio è un minuscolo gioiellino grezzo, intriso di poesia e a suo modo dotato di una buona dose di personalità ed eleganza formale.

Gli Humus vengono da Vignola, Modena, e, oltre ad aver collezionato prestigiosi riconoscimenti in diversi concorsi nazionali, e partecipato ad innumerevoli festival di artisti di strada, sono stati finalisti al premio Tenco nella sezione Miglior Opera Prima.

Popular Greggio, oscurato da una parvenza sempliciotta ed orecchiabile, è in realtà un lavoro difficile e a tratti schivo. Dodici favolette, più o meno cruente, sempre tristemente malinconiche, raccontate dalla teatrale vocalità riverberata dell’ottimo Ugo Ferrari, leader della banda e autore di tutte le musiche e alcuni testi. Gli Humus sono in sei, coadiuvati da numerosissimi ospiti che hanno contribuito a dipingere questa manciata di tenui acquerelli colorati. Per darvi un’idea, in Popular Greggio oltre agli strumenti d’ordinanza, chitarra acustica su tutti, ci sono violoncelli, violini, campanacci, trombe, tromboni, basso tube e flicorni, clarinetti e sassofoni, shaker e percussioni, e l’intera Banda Popolare di Marano… Ma il disco non si nasconde dietro il canone parodistico degli allegri buskers caciaroni, mantenendo in molti casi un mood di passionalità velata, di sfogo agrodolce.

Ragion per cui attenzione particolare è affidata ai testi, due dall’arguta penna del Premio Strega Tiziano Scarpa per La Gattarina e Lu Bombo Muscario, ballate per chitarra in un idioma dialettale immaginario, e un paio, Martino e L’Angelo Disse, del biblista Paolo De Benedetti, che affrontano delicatamente il tema della morte. L’album si dipana lieve, imbastendo trame strumentali di puro etno-folk partendo sempre dall’accompagnamento di chitarra e dalla voce alienata di Ferrari. Si passa dalla circense Giallo Cinese ai fenicotteri che volano nella favola triste Ho Visto, dalla tropicaleggiante Ora Me Ne Vado al j’accuse brillante della ritmata La Ballata de Il Grasso Bankiere, dall’esile ricamo del violino di Cenere Al Vento alla memoria partigiana nella semplicità dolorosa di Canzone Per Aldo. Note di merito per Oggi, delicata e poetica, e Quando Vado Via, ovvero l’abbandono delle proprie radici, fotografata da un violoncello struggente.

Tra Capossela e Piero Ciampi, Tom Waits e i Devotchka, un disco più emotivo che fisico, con momenti di contaminazione felice e brillante cantautorato, pieno di ottime idee ma ancora un po’ altalenante nei risultati. Senza troppe smussature agli angoli, con qualche spigolo vivo in più, avrebbe probabilmente colpito nel segno. Resta tuttavia un lavoro quasi unico per qualità compositiva nell’asfittico panorama folk italiota. Speriamo che in futuro il greggio non venga raffinato, e anzi vomitato come in copertina insieme a una buona dose di sangue e terra.

Myspace: www.myspace.com/humusinfabula

Video: "Giallo Cinese", live: www.youtube.com/watch

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 5 voti.
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