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R Recensione

7/10

Chapelier Fou

613

Periodo infido questo per nominare il Cappellaio Matto. Nove interlocutori su dieci, memori del recente spettacolo, si produrranno in un sorriso compiaciuto orecchio-orecchio: “L’hai visto, l’hai visto?”. Di questi nove, immagino che almeno sei potranno aggiungere con enfasi un estasiato “adorabile!”, mentre gli altri tre, di cui solo uno con cognizione di causa, porteranno critiche fra le più svariate, dal classico  “mi aspettavo di più”, al laconico “qualcosa non mi ha convinto”. In ogni caso, nel loro immaginario, avrà fatto irruzione la perfezione mascolina di Johnny Deep, offuscata (ma non nascosta) da strati e strati del make-up necessario a sprofondare l’attore nelle ambientazioni fanta-dark del grande bambino Tim Burton.

L’uno su dieci rimasto fuori statistica? Se non ha visto il film, probabilmente, ritiene che quello di Carroll sia a tal punto un gran libro da non meritarsi un’ennesima, milionaria, baracconata cinematografica. Ma Johnny Deep, con la medesima buona probabilità, avrà occupato anche i suoi pensieri.

Meno ricco, meno famoso, e soprattutto meno figo del cappellaio matto burtoniano, il francese Louis Warynsky (in arte, appunto, Chapelier Fou) è comunque sulla buona strada per dimostrare che, almeno in quanto a talento, non ha nulla da invidiare all’attore americano. Musicista di formazione classica, polistrumentista prettamente impegnato nel violino, Louis, a metà strada fra i venti e i trent’anni, se ne esce con una sua versione dell’accademia e della tradizione, scaraventando il fare altezzoso e conservatore dei padri nelle fauci dell’elettronica oggidì più in voga: un po’ di Warp/Morr, un po’ di folktronica, un pizzico di glitch, una cottura sempre attenta alla dimensione pop quanto alla miniatura classica, ed ecco qua 613, suo primo album vero e proprio dopo un paio di recenti EP di antipasto.

Non che, a dir la verità, il gusto cambi radicalmente. Anzi, gli ingredienti sono sempre quelli, ma non si può altresì negare che la sostanza non sia almeno un poco più appagante. Il cappellaio, pur nel suo innegabile eclettismo e stile, si trova nella scomoda, precaria posizione di non inventare assolutamente nulla di nuovo e, allo stesso tempo, di farlo benissimo: mescola l’elettronica con la musica classica (Le Quart De Ton, Les Prières à Complies), con la tradizione (Secret Handshake, il finale di Entendre La Forêt Qui Posse), con la ricerca ritmica (Inside Of You) o sonora (Elle Est L’Eau Qui Fait Le Torrent, approvata della Penguin Cafè Orchestra), con buona parte dei generi, dei suoni o dei costrutti più o meno attuali: l’hip hop sullo sfondo di Grahamophone, il cantautorato di Half Of The Time, con alla voce – rullino i tamburi – nientemeno che “Le Roi” Matt Elliott, le metriche scomode e micidiali di scuola Warp o quelle morbide e liquide della Morr Music, il gusto per la progressione e la costruzione incrementale evidente in G Tintinnabulum  o in Luggage (bello il flanger su cui si appoggia nel finale, rotondo e avvolgente quanto misurato nella propria invadenza). Non mancano le strutture complesse, i cambi repentini d’atmosfera, le occhiate alle orchestrazioni rese celebri dal movimento canadese.

Una tavola imbandita con dovizia di portate, con estro non solo culinario ma anche finemente estetico, della quale tutto si può dire tranne che offra solo un’inesauribile teiera. È vero che non c’è grande originalità nel menù, ma del servizio con cui esso è presentato non ci si può davvero lamentare. Così come è insospettabile la sua alta digeribilità. Va dato atto infatti, al cappelluto musicista, di saper incanalare in un’unica, placida corrente gli affluenti più disparati da cui attinge. Così come, nella copertina, i 613 grani invariabili di una granata diventano coriandoli dentro un frutto, le asperità di certa elettronica, i contrasti classico/moderno, le intersezioni più astruse si risolvono in una musica accogliente, tranquillizzante, morigeratamente allegra e comunque intrisa di nobile cultura.

E chissenefrega se gli accostamenti ai compatrioti Air o Yann Tiersen paiono ancora eccessivi, se altri (Murcof, Amon Tobin) già hanno lavorato al matrimonio fra elettronica e classica, se le lodi sperticate che Chapelier Fou riceve trovano origine forse più nelle sue collaborazioni passate (This Immortal Coil) o future (ci sarà nel nuovo disco di Third Eye Foundation) che non nella produzione autografa. Il francese è talentuoso e pieno di potenziale latente, questo è fuor di dubbio.

Se il suo primo album non è forse così notevole da meritarsi lo stereo nel giorno del tuo compleanno, è comunque abbastanza godibile da poterci stare spesso tutti gli altri giorni. Quelli che sarebbe ragionevolmente folle festeggiare. Quelli del tuo non-compleanno.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 4 voti.
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target 6/10

C Commenti

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salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 12:04 del 18 maggio 2010 ha scritto:

Nulla di niente sotto il sole? può darsi...ma quanto è più bello questo disco, più umile, più sincero dell'ultimo four tet... Sì il genere non è proprio lo stesso, ma io ci ho trovato diverse assonanze

paolo gazzola, autore, alle 12:49 del 19 maggio 2010 ha scritto:

Magari "nulla di nuovo" , ma di sostanza qui ce n'è eccome. Che poi sia meglio dell'ultimo Four Tet è ovviamente opinabile ma, con tutta la cautela che la distanza fra i due lavori suggerisce, posso ben dire di essere d'accordo con te.

synth_charmer alle 13:06 del 19 maggio 2010 ha scritto:

sta cosa suona come in Italia, che tutti dicono di non votare Berlusconi, ma intanto sta sempre in maggioranza. Qui tutti dicono che Four Tet non è un capolavoro, ma se sta lì di voti ne ha ricevuti eh

paolo gazzola, autore, alle 13:16 del 19 maggio 2010 ha scritto:

Be', almeno qui i voti si vedono...

Suicida (ha votato 6 questo disco) alle 18:30 del 5 maggio 2012 ha scritto:

Comincia bene poi indugia un pò troppo. Nel complesso comunque è piuttosto gradevole.