David Bowie
Aladdin Sane
Ogni volta che si legge una recensione su "Aladdin Sane" ci si imbatte nella stessa frase: "Aladdin Sane è Ziggy Stardust dopo un viaggio in America". Anche supponendo che chiunque ascolti Bowie si sia già reso conto di che cantonata si tratti, sarebbe il caso di dedicare due righe alla questione. L'errore è su due livelli: primo, è un disco che contiene anche molta Europa; secondo, di America ce n'era già a vagonate nella musica di Bowie, da ben prima di questo album. L'aneddoto che lega "Life On Mars?" a "My Way" di Frank Sinatra è ben noto, "Song For Bob Dylan" e "Andy Warhol" si spiegano da sé, così come le varie cover di Biff Rose e Ron Davies, la risposta ai Velvets di "Queen Bitch", il boogie anabolizzato di "Hang on to Yourself", il doo-wop di "Soul Love": si potrebbe continuare all'infinito. "Aladdin Sane" ha solo continuato a interessarsi all'altra sponda dell'oceano, come Bowie aveva sin a quel momento sempre fatto: non si capisce quindi il motivo della fastidiosa precisazione che lo accompagna ormai dai tempi dell'uscita, se non per il fatto che il materiale sia stato elaborato fisicamente negli Stati Uniti, durante il tour di Ziggy.
Ci si imbatte nel free jazz, innestato dal pianista Mike Garson, nel gospel, nel doo-wop, nel blues e in rockabilly isterici. Nessuno che sottolinei però mai come lo stile di Garson (parente di quello di Keith Tippett) fosse più vicino all'approdo europeo di quella corrente jazzistica, né la presenza di un brano influenzato da Kurt Weill ("Time"), la decadenza tipicamente europea di "Lady Grinning Soul", l'approccio vocale sempre più estetizzate e cabarettistico. Bowie stava semplicemente continuando, né più né meno, la sua commistione fra musica americana e musica europea: del resto creare una musica popolare del tutto europea all'epoca era particolarmente difficile (ci sarebbe voluto l'approdo massiccio dell'elettronica per consentirlo). Per gli inglesi era poi del tutto impossibile: per cinquanta anni, prima che esplodesse il beat, Albione era stata definita 'la terra senza musica'. Gli stessi Kinks, coloro che più di tutti diedero una connotazione british e nostalgica di quella musica, lo fecero distorcendo a loro favore alcuni stilemi della tradizione americana e innestandovi quel poco che l'avara patria gli aveva offerto (marcette militari, musica da band paesana, qualche carillon e poco altro). La grandezza di "Aladdin Sane" sta semmai nella sua eterogeneità, dato che nessun disco glam-rock fino a quel momento aveva esplorato una simile quantità di territori: di certo non "The Rise and Fall of Ziggy Stardust", che conteneva in sostanza due blocchi di canzoni (gli inni proto-punk e le ballate).
Qui invece fra suoni saturi sino al parossismo ("Watch That Man", "Cracked Actor") e stravolgimenti stonesiani a tripla velocità ("Let's Spend the Night Together"), musica-teatro ("Time") e struggenti torch song ("Lady Grinning Soul"), balli sincopati ("Panic in Detroit") e blues d'assalto ("The Jean Genie"), divertissement nostalgici ("The Prettiest Star", "Drive-In Saturday") e canzoni d'atmosfera che deragliano in code rumoristiche ("Aladdin Sane"), non si sa davvero da quale parte voltarsi. Crogiuolo ribollente e schizofrenico, con la chitarra di Mick Ronson mai più così pungente e una produzione miracolosa (Bowie + Ken Scott) capace di mimetizzare spunti fra loro antitetici, "Aladdin Sane" rimane uno dei dischi cardine per concepire l'atteggiamento curioso e contaminatore che avrebbe portato qualcuno a coniare il termine art-rock (sperando che nessuno l'abbia mai inteso come corrente a sé, ovviamente).
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