Pulp
We Love Life
«You’ve been awake all night, so why should you crash out at dawn?».
Strana carriera quella dei Pulp. Al successo ci arrivano 14 anni dopo le loro prime incisioni, datate 1980, e 13 anni dopo aver impressionato John Peel con il loro primo demo. Nascono a Sheffield, nella provincia inglese più grigia, mentre si celebrano i baccanali post-punk, ma ondeggiano per un decennio intero tra influenze cantautorali folk (“It”, 1983), art-pop cabarettistico (“Freaks”, 1987), acidità disco e nostalgie gainsbourghiane (“Separations”, 1992), sempre in balia dei vezzi del leader e unico membro permanente Jarvis Cocker, sbalestrati dai turbinanti avvicendamenti nella line-up e dalle beghe con le etichette. Devono aspettare il boom del brit-pop a metà ’90 per essere inquadrati e apprezzati: “His’n’Hers” (1994) e soprattutto “Different Class” (1995) restano gli apici della loro estetica da dandy del pop, anche se è il sinistro “This Is Hardcore” (1998) a candidarsi, con i suoi ghigni noir e il suo snervamento fin de siècle, a capolavoro della band.
Il momento dell’addio potrebbe coincidere con il lunghissimo drone che chiude come un encefalogramma piatto (interrotto solo da un significativo «bye bye») “The Day After The Revolution”, ultimo pezzo di “This Is Hardcore”. Ma così non è. La band traccheggia, straccia un mucchio di canzoni non abbastanza convincenti, assiste al progressivo disfacimento del carrozzone brit-pop, fa passare i mesi, ma alla fine partorisce ancora. “We Love Life”, settimo studio-album dei Pulp, esce nell’autunno 2001, già con l’etichetta (fino ad ora non smentita) di ultimo disco della band. Dopo il delirio decadente e l’artefazione dolorosa di “This Is Hardcore”, “We Love Life” vuole rappresentare, sin dal titolo, la riappacificazione con la vita e la natura. Il lettering del nome Pulp, nella copertina, è decorato da fregi floreali, nel libretto la band viene ritratta in mezzo a un campo di mais, tracce come “Weeds”, “Trees”, “The Birds In Your Garden”, “Sunrise” cercano di recuperare, già nei titoli, una perduta sintonia tra uomo e ambiente, mentre in alcune scelte della band, come quella di destinare 1 penny per ogni cd venduto in Inghilterra alla piantagione di alberi con la Future Forests, si affaccia una vena propriamente ecologista. Si può prospettare la vita dopo l’apocalissi?
Per le prime prove di registrazione i Pulp si rivolgono a Chris Thomas, produttore dei due dischi precedenti. I tempi, però, sono mutati. Cocker, constatata l’impasse, decide di virare e interpellare nientemeno che Scott Walker. Le canzoni, per lo più, sono già pronte, ma devono ancora trovare una forma. Il vecchio Walker sembra la persona giusta per farlo. E accetta. Cocker esulta, anche se rimane un piccolo imbarazzo. In un pezzo già composto che idealmente dovrebbe trovare spazio nel disco (“Bad Cover Version”) Jarvis cita, in mezzo a una lista di rifacimenti spazzatura e di aborti vari, «the second side of “Till The Band Comes In”», quinto disco di Walker. Cocker troverà il coraggio di dirglielo soltanto il giorno stesso della registrazione del brano. Walker sfottuto in un disco da lui prodotto: solo con i Pulp poteva succedere. Il connubio, nonostante questa innocua birichinata tutta cockeriana, funziona alla grande. E il “ritorno” dei Pulp, lungi dall’essere catalogabile in quello stesso elenco di revival inopportuni, diventa nuova gloria.
La produzione di Walker porta linfa vitale ai semi della nuova creatura Pulp. Mentre il peso dell’elettronica diventa decisamente più leggero rispetto al passato, qualificandosi in realtà come una bilanciata dose di ornamenti periferici benissimo calibrati dalla sopraffina Candida Doyle, le sonorità guadagnano rozzezza e fisicità: ne esce un lavoro che cerca di integrarsi anche nei suoni con la terrosità e l’elemento biologico del concept di fondo. L’accoppiata iniziale, “Weeds” e “Weeds II (The Origin Of The Species)”, mostra corde da tempo sopite, se non del tutto inedite per Cocker & Co., tanto nel piglio roots della prima, sporcata da chitarre inzuppate nella distorsione e dalla batteria grezza, quanto nei pattern psichedelici della seconda: lo spoken word di Jarvis ricalca un canovaccio noto, ma le tastiere acide e la chitarra con wah-wah riproducono un asettico clima da laboratorio, alieno dal resto del disco, sicché ne esce una sorta di cellula appartata dalla quale la band sembra studiare, come da un microscopio, la vita de-naturata dell’uomo contemporaneo.
La struttura di “We Love Life” è tra le più bizzarre proposte dai Pulp. Mentre solitamente i brani più complessi e le suite venivano lasciati per la seconda metà dei dischi (“David’s Last Summer” in “His’n’Hers”, “F.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E.” in “Different Class”, “Seductive Barry” in “This Is Hardcore”) qui tocca al ‘lato A’ raccogliere le sperimentazioni maggiori. Fa eccezione, direi, la sola “The Night That Minnie Timperley Died”, pop retrò zeppo di hand-clapping e soltanto un po’ dopato dal potente riff elettrico e dal basso distorto di Steve Mackey, perché la stessa “The Trees” si muove su percorsi solo apparentemente lineari: il pezzo, primo singolo estratto dal disco, è una strana ecloga autunnale sventolata dalle tastiere e piena di un’eco aerea che spinge le chitarre sullo sfondo, con un effetto di jingle jangle invecchiato in bottiglia. Nella seconda parte del brano, poi, Walker ricrea ad hoc, per l’intermezzo, lo stormire degli alberi, mentre un organo ricama melodie nostalgiche, sicché ne risulta un brano fonosimbolico, che mima, cioè, non solo nell’umore ma anche negli effetti acustici, ciò di cui parla, in un trionfo ottobrino («your skin so pale against the fallen autumn leaves») di grande efficacia.
Una tecnica simile, votata a far parlare gli elementi naturalistici e a cercare la loro compenetrazione con le note, torna in “The Birds In Your Garden”, aperta e chiusa da una riproduzione virtuale del cinguettio degli uccelli, generato in un istituto specializzato nella ricerca dei suoni dell’università di Southampton. Lo zenit sperimentale del disco, da questa prospettiva, è però “Wickerman”. Suite di oltre otto minuti suddivisibile in quattro parti, la quinta pagina di questa sorta di erbario che è “We Love Life” rappresenta una delle vette dei Pulp interi. Cocker segue, tra spezzoni di spoken word intimistico (specie di annotazioni private fermate su nastro) e impennate melodiche teatrali, il tragitto di un oscuro canale che si interra dietro la stazione di Sheffield. Il cammino del fiumiciattolo dalla città verso la campagna diventa percorso ideale di liberazione ed esempio (utopico) di vita ritrovata, ma soprattutto guida per la struttura della canzone stessa. La prima parte, buia e umidiccia, stile “This Is Hardcore”, accompagnata da limature acciaiose, fotografa il sudiciume della periferia cittadina, mentre la seconda, nel duetto sincopato di acustica e archi, cerca di ristabilire un idillio impossibile (il canale lambisce il bar dove l’alter ego cockeriano baciò per la prima volta la sua lei: ma il ritorno del passato è impossibile). È la terza parte, rallentata fino all’intontimento, a lanciare il crescendo morriconiano del finale, quando Cocker immagina una fuga agreste e un’apertura del paesaggio («if we go just another mile we will surface surrounded by grass and trees») simulate nell’esplosione degli archi, quasi venissero a cadere tutti gli edifici grigi di smog che inquinavano la città, liberando, rispetto alle sezioni precedenti della suite, anche gli spazi sonori. L’evasione, però, è solo ipotetica, tanto che le ultime parole, di un fatalismo funesto («wherever the river may take us, wherever it wants us to go»), e i boati temporaleschi che chiudono il pezzo suggeriscono come l’unico sbocco possibile sia la morte. Cardine del disco, “Wickerman” esibisce, nella sua complessità, la straordinaria ricchezza della scrittura cockeriana e l’eterna fascinazione luttuosa dei Pulp più intensi.
La seconda metà del lavoro, divisa dalla bifronte “I Love Life”, il cui ottimismo borghese iniziale sfocia in un isterismo psych-pop febbricitante, sembra trovare quell’equilibrio naturalistico fin qui solo abbozzato. Non stupisce, allora, che proprio in questo frangente riemergano come per miracolo i lasciti folkish e rusticani di “It”. “The Birds In Your Garden” è un inno sentimentale al potere della natura, sostenuto da ocarina e flauto e poi dondolato a metà dalla sega ad arco, in un clima albeggiante da plazer provenzale: gli uccellini invitano il protagonista a mettere da parte le proprie ansie psicologiche e a concedersi alla ragazza che lo aspetta in camera seguendo la spinta istintiva del proprio corpo (immagino che Cocker non abbia letto Pascoli, ma aleggia qualcosa del voyeurismo morboso del “Gelsomino notturno”...). Classicismo pop puro, dai Beatles in giù.
Più ci si inoltra nel disco, più i ritmi della natura trionfano. “Roadkill”, per parlare di una liaison sfortunata, trae ispirazione dalla rievocazione di un cervo morto sul ciglio della strada incontrato durante uno degli ultimi viaggi in macchina con la donna amata. La canzone, in parte registrata live, con Cocker che canta e suona la chitarra contemporaneamente, assume, anche grazie alla sua resa scheletrica e agli impacci di Jarvis («I'm not a very good guitarist, and especially if I'm singing at the same time I become a pretty inept guitarist»), una potente carica di autenticità, come insegna lo Scott Walker più profondo. Rimane, tuttora, una delle prove più ‘vere’ (e non ‘veriste’) dei Pulp: dalle vecchie e teatralizzate tranches de vie Cocker è passato al diario intimo, trasudando una fragilità mai così nuda.
Le pieghe melodiche di “Bob Lind (The Only Way Is Down)” e specialmente di “Bad Cover Version” riaprono ai Pulp più vulgati: il piglio melò della seconda, in particolare, in virtù della zuccherosità caricaturale del ritornello, riaccende per un istante la fiamma goliardica della band, facendo sì che il pezzo sia al contempo l’unico momento leggermente fuori sesto dell’album e un cammeo gustoso del Jarvis Cocker più istrionico (godibilissimo anche il video, auto-omaggio che i Pulp si tributano grazie a una lunga serie di spassosissimi sosia). C’è, ancora, un tempo per la provocazione.
E tuttavia il vero tempo, nel 2001, per Cocker, è quello di andare a vivere con moglie e figli a Parigi per recuperare una normalità che il business musicale gli ha giocoforza tolto. Tutti i ritorni sfiancati dai party più selvaggi, quando, novello giovin signore, tornava a casa all’alba con gli occhi pesti, mentre la ‘common people’ si preparava al nuovo giorno, hanno segnato il vecchio flâneur. Bisogna tornare ai ritmi della natura. Bisogna svegliarsi con il sole. «I used to hide from the sun, tried to live my whole life underground», canta Jarvis in “Sunrise”, ultima e gloriosa traccia del disco, in una sorta di palinodia del vecchio ‘snaturato’ stile di vita. Il tripudio finale di cori e archi che chiude l’ultimo lavoro dei Pulp, in una pienezza sonora spectoriana che raramente la band aveva toccato, sembra voler aprire alla speranza di una nuova alba. Il messaggio, pur tra insistiti segnali funebri, è di vita, in un’ambigua lotta tra i due termini che rivive nel consueto Cocker-pensiero vergato sul libretto del disco: «You’ve got to fight to the death for the right to leave your life». Non si sa, alla fine, se la vita amata dai Pulp arrivi ‘per vita’ o ‘per morte’.
Certo è che, se si è fortunati, si foss’anche defunti o sulla via del declino, si può godere di una seconda chance. Alla pubblicazione del disco i successi di vendita sembrano calare, ma la possibilità di una rinascita per i Pulp arriva, incredibilmente, subito: la Coca-Cola chiede di poter utilizzare un estratto di “Sunrise” come colonna sonora per la sua nuova pubblicità. Cocker, che ha trascorso tutta la vita cercando di diventare famoso, riuscendoci soltanto dopo un’infinita gavetta che avrebbe stremato chiunque altro, risponde di no. “Sunrise” rimarrà l’ultima canzone dell’ultimo disco dei Pulp, e basta: niente bollicine, nessuna rinascita commerciale. La chiamano etica della rinuncia, e dicono che dia strane soddisfazioni debordanti di orgoglio. Per Jarvis c’è una nuova vita da solista, meno brillante ma pur sempre ricca di riconoscimenti. Per noi c’è una storia di bellezza pop che si può ricostruire quando si vuole, anche partendo dalla fine.
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