V Video

R Recensione

8/10

Pulp

We Love Life

«You’ve been awake all night, so why should you crash out at dawn?».

Strana carriera quella dei Pulp. Al successo ci arrivano 14 anni dopo le loro prime incisioni, datate 1980, e 13 anni dopo aver impressionato John Peel con il loro primo demo. Nascono a Sheffield, nella provincia inglese più grigia, mentre si celebrano i baccanali post-punk, ma ondeggiano per un decennio intero tra influenze cantautorali folk (“It”, 1983), art-pop cabarettistico (“Freaks”, 1987), acidità disco e nostalgie gainsbourghiane (“Separations”, 1992), sempre in balia dei vezzi del leader e unico membro permanente Jarvis Cocker, sbalestrati dai turbinanti avvicendamenti nella line-up e dalle beghe con le etichette. Devono aspettare il boom del brit-pop a metà ’90 per essere inquadrati e apprezzati: “His’n’Hers” (1994) e soprattutto “Different Class” (1995) restano gli apici della loro estetica da dandy del pop, anche se è il sinistro “This Is Hardcore” (1998) a candidarsi, con i suoi ghigni noir e il suo snervamento fin de siècle, a capolavoro della band.

Il momento dell’addio potrebbe coincidere con il lunghissimo drone che chiude come un encefalogramma piatto (interrotto solo da un significativo «bye bye») “The Day After The Revolution”, ultimo pezzo di “This Is Hardcore”. Ma così non è. La band traccheggia, straccia un mucchio di canzoni non abbastanza convincenti, assiste al progressivo disfacimento del carrozzone brit-pop, fa passare i mesi, ma alla fine partorisce ancora. “We Love Life”, settimo studio-album dei Pulp, esce nell’autunno 2001, già con l’etichetta (fino ad ora non smentita) di ultimo disco della band. Dopo il delirio decadente e l’artefazione dolorosa di “This Is Hardcore”, “We Love Life” vuole rappresentare, sin dal titolo, la riappacificazione con la vita e la natura. Il lettering del nome Pulp, nella copertina, è decorato da fregi floreali, nel libretto la band viene ritratta in mezzo a un campo di mais, tracce come “Weeds”, “Trees”, “The Birds In Your Garden”, “Sunrise” cercano di recuperare, già nei titoli, una perduta sintonia tra uomo e ambiente, mentre in alcune scelte della band, come quella di destinare 1 penny per ogni cd venduto in Inghilterra alla piantagione di alberi con la Future Forests, si affaccia una vena propriamente ecologista. Si può prospettare la vita dopo l’apocalissi?

Per le prime prove di registrazione i Pulp si rivolgono a Chris Thomas, produttore dei due dischi precedenti. I tempi, però, sono mutati. Cocker, constatata l’impasse, decide di virare e interpellare nientemeno che Scott Walker. Le canzoni, per lo più, sono già pronte, ma devono ancora trovare una forma. Il vecchio Walker sembra la persona giusta per farlo. E accetta. Cocker esulta, anche se rimane un piccolo imbarazzo. In un pezzo già composto che idealmente dovrebbe trovare spazio nel disco (“Bad Cover Version”) Jarvis cita, in mezzo a una lista di rifacimenti spazzatura e di aborti vari, «the second side of “Till The Band Comes In”», quinto disco di Walker. Cocker troverà il coraggio di dirglielo soltanto il giorno stesso della registrazione del brano. Walker sfottuto in un disco da lui prodotto: solo con i Pulp poteva succedere. Il connubio, nonostante questa innocua birichinata tutta cockeriana, funziona alla grande. E il “ritorno” dei Pulp, lungi dall’essere catalogabile in quello stesso elenco di revival inopportuni, diventa nuova gloria.

La produzione di Walker porta linfa vitale ai semi della nuova creatura Pulp. Mentre il peso dell’elettronica diventa decisamente più leggero rispetto al passato, qualificandosi in realtà come una bilanciata dose di ornamenti periferici benissimo calibrati dalla sopraffina Candida Doyle, le sonorità guadagnano rozzezza e fisicità: ne esce un lavoro che cerca di integrarsi anche nei suoni con la terrosità e l’elemento biologico del concept di fondo. L’accoppiata iniziale, “Weeds” e “Weeds II (The Origin Of The Species)”, mostra corde da tempo sopite, se non del tutto inedite per Cocker & Co., tanto nel piglio roots della prima, sporcata da chitarre inzuppate nella distorsione e dalla batteria grezza, quanto nei pattern psichedelici della seconda: lo spoken word di Jarvis ricalca un canovaccio noto, ma le tastiere acide e la chitarra con wah-wah riproducono un asettico clima da laboratorio, alieno dal resto del disco, sicché ne esce una sorta di cellula appartata dalla quale la band sembra studiare, come da un microscopio, la vita de-naturata dell’uomo contemporaneo.

La struttura di “We Love Life” è tra le più bizzarre proposte dai Pulp. Mentre solitamente i brani più complessi e le suite venivano lasciati per la seconda metà dei dischi (“David’s Last Summer” in “His’n’Hers”, “F.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E.” in “Different Class”, “Seductive Barry” in “This Is Hardcore”) qui tocca al ‘lato A’ raccogliere le sperimentazioni maggiori. Fa eccezione, direi, la sola “The Night That Minnie Timperley Died”, pop retrò zeppo di hand-clapping e soltanto un po’ dopato dal potente riff elettrico e dal basso distorto di Steve Mackey, perché la stessa “The Trees” si muove su percorsi solo apparentemente lineari: il pezzo, primo singolo estratto dal disco, è una strana ecloga autunnale sventolata dalle tastiere e piena di un’eco aerea che spinge le chitarre sullo sfondo, con un effetto di jingle jangle invecchiato in bottiglia. Nella seconda parte del brano, poi, Walker ricrea ad hoc, per l’intermezzo, lo stormire degli alberi, mentre un organo ricama melodie nostalgiche, sicché ne risulta un brano fonosimbolico, che mima, cioè, non solo nell’umore ma anche negli effetti acustici, ciò di cui parla, in un trionfo ottobrino («your skin so pale against the fallen autumn leaves») di grande efficacia.

Una tecnica simile, votata a far parlare gli elementi naturalistici e a cercare la loro compenetrazione con le note, torna in “The Birds In Your Garden”, aperta e chiusa da una riproduzione virtuale del cinguettio degli uccelli, generato in un istituto specializzato nella ricerca dei suoni dell’università di Southampton. Lo zenit sperimentale del disco, da questa prospettiva, è però “Wickerman”. Suite di oltre otto minuti suddivisibile in quattro parti, la quinta pagina di questa sorta di erbario che è “We Love Life” rappresenta una delle vette dei Pulp interi. Cocker segue, tra spezzoni di spoken word intimistico (specie di annotazioni private fermate su nastro) e impennate melodiche teatrali, il tragitto di un oscuro canale che si interra dietro la stazione di Sheffield. Il cammino del fiumiciattolo dalla città verso la campagna diventa percorso ideale di liberazione ed esempio (utopico) di vita ritrovata, ma soprattutto guida per la struttura della canzone stessa. La prima parte, buia e umidiccia, stile “This Is Hardcore”, accompagnata da limature acciaiose, fotografa il sudiciume della periferia cittadina, mentre la seconda, nel duetto sincopato di acustica e archi, cerca di ristabilire un idillio impossibile (il canale lambisce il bar dove l’alter ego cockeriano baciò per la prima volta la sua lei: ma il ritorno del passato è impossibile). È la terza parte, rallentata fino all’intontimento, a lanciare il crescendo morriconiano del finale, quando Cocker immagina una fuga agreste e un’apertura del paesaggio («if we go just another mile we will surface surrounded by grass and trees») simulate nell’esplosione degli archi, quasi venissero a cadere tutti gli edifici grigi di smog che inquinavano la città, liberando, rispetto alle sezioni precedenti della suite, anche gli spazi sonori. L’evasione, però, è solo ipotetica, tanto che le ultime parole, di un fatalismo funesto («wherever the river may take us, wherever it wants us to go»), e i boati temporaleschi che chiudono il pezzo suggeriscono come l’unico sbocco possibile sia la morte. Cardine del disco, “Wickerman” esibisce, nella sua complessità, la straordinaria ricchezza della scrittura cockeriana e l’eterna fascinazione luttuosa dei Pulp più intensi.

La seconda metà del lavoro, divisa dalla bifronte “I Love Life”, il cui ottimismo borghese iniziale sfocia in un isterismo psych-pop febbricitante, sembra trovare quell’equilibrio naturalistico fin qui solo abbozzato. Non stupisce, allora, che proprio in questo frangente riemergano come per miracolo i lasciti folkish e rusticani di “It”. “The Birds In Your Garden” è un inno sentimentale al potere della natura, sostenuto da ocarina e flauto e poi dondolato a metà dalla sega ad arco, in un clima albeggiante da plazer provenzale: gli uccellini invitano il protagonista a mettere da parte le proprie ansie psicologiche e a concedersi alla ragazza che lo aspetta in camera seguendo la spinta istintiva del proprio corpo (immagino che Cocker non abbia letto Pascoli, ma aleggia qualcosa del voyeurismo morboso del “Gelsomino notturno”...). Classicismo pop puro, dai Beatles in giù.

Più ci si inoltra nel disco, più i ritmi della natura trionfano. “Roadkill”, per parlare di una liaison sfortunata, trae ispirazione dalla rievocazione di un cervo morto sul ciglio della strada incontrato durante uno degli ultimi viaggi in macchina con la donna amata. La canzone, in parte registrata live, con Cocker che canta e suona la chitarra contemporaneamente, assume, anche grazie alla sua resa scheletrica e agli impacci di Jarvis («I'm not a very good guitarist, and especially if I'm singing at the same time I become a pretty inept guitarist»), una potente carica di autenticità, come insegna lo Scott Walker più profondo. Rimane, tuttora, una delle prove più ‘vere’ (e non ‘veriste’) dei Pulp: dalle vecchie e teatralizzate tranches de vie Cocker è passato al diario intimo, trasudando una fragilità mai così nuda.

Le pieghe melodiche di “Bob Lind (The Only Way Is Down)” e specialmente di “Bad Cover Version” riaprono ai Pulp più vulgati: il piglio melò della seconda, in particolare, in virtù della zuccherosità caricaturale del ritornello, riaccende per un istante la fiamma goliardica della band, facendo sì che il pezzo sia al contempo l’unico momento leggermente fuori sesto dell’album e un cammeo gustoso del Jarvis Cocker più istrionico (godibilissimo anche il video, auto-omaggio che i Pulp si tributano grazie a una lunga serie di spassosissimi sosia). C’è, ancora, un tempo per la provocazione.

E tuttavia il vero tempo, nel 2001, per Cocker, è quello di andare a vivere con moglie e figli a Parigi per recuperare una normalità che il business musicale gli ha giocoforza tolto. Tutti i ritorni sfiancati dai party più selvaggi, quando, novello giovin signore, tornava a casa all’alba con gli occhi pesti, mentre la ‘common people’ si preparava al nuovo giorno, hanno segnato il vecchio flâneur. Bisogna tornare ai ritmi della natura. Bisogna svegliarsi con il sole. «I used to hide from the sun, tried to live my whole life underground», canta Jarvis in “Sunrise”, ultima e gloriosa traccia del disco, in una sorta di palinodia del vecchio ‘snaturato’ stile di vita. Il tripudio finale di cori e archi che chiude l’ultimo lavoro dei Pulp, in una pienezza sonora spectoriana che raramente la band aveva toccato, sembra voler aprire alla speranza di una nuova alba. Il messaggio, pur tra insistiti segnali funebri, è di vita, in un’ambigua lotta tra i due termini che rivive nel consueto Cocker-pensiero vergato sul libretto del disco: «You’ve got to fight to the death for the right to leave your life». Non si sa, alla fine, se la vita amata dai Pulp arrivi ‘per vita’ o ‘per morte’.

Certo è che, se si è fortunati, si foss’anche defunti o sulla via del declino, si può godere di una seconda chance. Alla pubblicazione del disco i successi di vendita sembrano calare, ma la possibilità di una rinascita per i Pulp arriva, incredibilmente, subito: la Coca-Cola chiede di poter utilizzare un estratto di “Sunrise” come colonna sonora per la sua nuova pubblicità. Cocker, che ha trascorso tutta la vita cercando di diventare famoso, riuscendoci soltanto dopo un’infinita gavetta che avrebbe stremato chiunque altro, risponde di no. “Sunrise” rimarrà l’ultima canzone dell’ultimo disco dei Pulp, e basta: niente bollicine, nessuna rinascita commerciale. La chiamano etica della rinuncia, e dicono che dia strane soddisfazioni debordanti di orgoglio. Per Jarvis c’è una nuova vita da solista, meno brillante ma pur sempre ricca di riconoscimenti. Per noi c’è una storia di bellezza pop che si può ricostruire quando si vuole, anche partendo dalla fine.

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Dr.Paul (ha votato 8 questo disco) alle 14:24 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

minchia! target torna a recensire i must-have! bella prova!!! conocrodo anche con il voto. nn sapevo la storia della coca-cola/sunrise, e riguardo il video di bad cover version....una figata...quell'andatura da "do they know it's christmas" e jarvis/brian may....roba da saltare sulla sedia!! ))

Sor90 alle 14:27 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

Recensione bellissima! mi ha fatto venire ancora più voglia di ascoltare questo disco, lo farò al più presto, intanto un 10 a Target non lo toglie nessuno!

target, autore, alle 15:03 del 9 ottobre 2009 ha scritto:

Grazie ragazzi! Eh sì, il video di "Bad cover version" è uno spettacolo assoluto. A me, a parte il Jarvis/Brian May, esalta soprattutto Meat Loaf ("It's so hard to disconnect", con la mano che fa il pugno) e subito dopo la caricatura di Cher che canta "when it's electronically reprocessed" distorta dal vocoder: mi sganascio sempre! La cosa della coca-cola la puoi leggere anche qui: http://www.nme.com/news/nme/9283 Pare che, ricevuto il rifiuto, quelli della Coca abbiano ricreato ad arte un jingle identico a quello di "Sunrise". In realtà non l'ho mai sentito...

benoitbrisefer alle 0:00 del 10 ottobre 2009 ha scritto:

Recupero interessante e recensione ineffabile...

A suo tempo il disco, in rapporto ai precedenti dei Pulp, non mi convinse molto... ora è tempo di riascolto!!! Il voto ovviamente in standby.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 19:13 del 11 ottobre 2009 ha scritto:

Ahhhhh, i Pulp. Qui si erano rigenerati, dopo il collasso di "This Is Hardcore" (uno di quei dischi situati a un passo dal nulla, qualcosa di inavvicinabile), e per giunta avevano sbandierato ai quattro venti la ritrovata salubrità con un titolo spavaldo, autoironico, come "We Love Life"! ;D Che dire... Il disco è bellissimo, anche se non hai livelli di "Different Class" o del monolite che ho citato prima. La produzione di Walker è colorita ma "secca", e conferisce agli strumenti un alone metallico piuttosto peculiare, almeno fino a metà disco (come ha notato il buon Target). Il resto scorre in equilibrio precario e fascinosissimo, vano come può esserlo il tentativo di reimpossessarsi della giovinezza perduta. Un epilogo glorioso, davvero. E "Trees" sta di diritto fra le loro dieci canzoni migliori di sempre. Amen.

FrancescoB alle 16:13 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

Bella recensione, davvero. Il disco lo proverò.

Stipe alle 20:17 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

Un ottimo disco, anche se per quel che mi riguarda inferiore ai tre precedenti che ritengo capolavori/ottimi dischi.

Anzi devo dire che è stato grazie a questo album che li ho cominciati a riscoprire, dopo che per anni li avevo snobbati.

Piuttosto non ho mai ascoltato i primi 3 di cui ho sentito spesso pareri discordanti.

target, autore, alle 21:02 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

Beh, dei tre precedenti "Separations" è sicuramente il più interessante, soprattutto il 'lato A' (diciamo: un "His'n'hers" più scuro), mentre il 'lato B' ha sperimentazioni disco un po' eccentriche. Si può dire che contenga in nuce, ma sgangheratamente, quasi tutti i Pulp successivi. "Freaks", invece, è un album bruttino e raffazzonato, mentre "It" è un dischello folk pop niente male, curioso come antenato.

DucaViola (ha votato 4 questo disco) alle 12:02 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

controcorrente

A questo punto devo andare controcorrente, perché a me questo disco non piace affatto, o se qualcosa d'interessante c'è è sotterrata da tentativi melodici che sdirazzano verso un'inconcludenza totale... salverei 2-3 brani. I Pulp non sono mai stati sperimetatori di generi,e si collocavano alla perfezione nella fucina britpop anni 90 partorendo buone cose all'interno di uno stile a tratti preconfezionato, ma ci stava... this is hardcore lo adoro, i brani mi convincevano e l'atmosfera era sospesa e a tratti alla Bowie. In "we love life" non avverto nulla di esaltante... è sempre pop ma senza la brillantezza che il pop dovrebbe avere... lo trovo stanco... ma realizzo di essere uno dei pochi a vederla così.

ozzy(d) alle 19:11 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

bravo duca viola, diciamolo che questo revisionismo brit popper sta diventando stucchevolissimo lol.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 19:22 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

"I Pulp non sono mai stati sperimetatori di generi" ---> Stai scherzando, spero... XD

Mr. Wave alle 20:35 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

DucaViola, non vorrai mica circoscrivere opere come ''His 'n' Hers'', ''Different Class'' e ''This Is Hardcore'' in approssimative etichettature brit-pop e/o pop-rock?!

loson (ha votato 7 questo disco) alle 20:54 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE:

Beh, se i Pulp non sono brit-pop allora il brit-pop non esiste,dai... Certo che sono brit-pop, ma hanno "sperimentato" a iosa, spesso in modo tutt'altro che accondiscendente. Pensa ai loro brani free-form con recitativo di Cocker, tipo "I Spy"...

Mr. Wave alle 21:07 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE: RE: i Pulp non sono brit-pop allora il brit-pop non esiste

Ovviamente era una provocazione la mia. E' chiaro che i Pulp rientrano a tutta forza nel filone brit-, ma è anche vero che la loro verve artistica, non si impantanò solo lì, ma si ramificò in diversi sentieri musicali. A me non piacciono le strozzature stilistiche (brit-pop, pop-rock ecc...), quindi ampierei il raggio di analisi e ometterei i discorsi sulle presunte sperimentazioni della band di Sheffield.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 21:18 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE: RE: RE: i Pulp non sono brit-pop allora il brit-pop non esiste

"quindi ampierei il raggio di analisi e ometterei i discorsi sulle presunte sperimentazioni della band di Sheffield." ---> A parte il fatto che queste sperimentazioni non sono presunte (la discendenza art-rock dei Pulp è evidente), io lo facevo notare proprio per evidenziare come il brit-pop sia stato un "campo" assi ampio, per nulla riconducibile a pochi, abusati idiomi.

Mr. Wave alle 21:19 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE: RE: RE: RE: i Pulp non sono brit-pop allora il brit-pop non esiste

ah ok! Allora ti ho frainteso

ozzy(d) alle 20:42 del 14 ottobre 2009 ha scritto:

in effetti quel pezzo dei pulp che scopiazza "gloriaaaaa" di umberto tozzi non merita nemmeno il purgatorio del brit pop lol.

Disorder (ha votato 8 questo disco) alle 14:24 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

a gulliver

ma tornatene tra i lillipuziani che qua so' tutti più grandi di te e le cazzate che dici(nonostante siano enormi) non attaccano!

DucaViola (ha votato 4 questo disco) alle 14:39 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

Neanche a me piace catalogare la musica in un genere ristretto come ho già spiegato in altri post, ma dato che qui si parla spesso di britpop, post britpop, indie, prog, post prog, acidpostptog, psyco killer metal e bu bu zettete... mi adeguo, e i Pulp, se non erro, dovrebbero appartenere al filone britpop. Fatta questa premessa continuo a dire che "We Love Life" è, secondo il mio modesto parere, un album loffo e che i Pulp non sono stati dei grandi sperimentatori di generi... ma vorrei tranquillizzare tutti gli appassionati, perché dato che la mia resterà solo (per fortuna) un'opinione tra tante, non girerò mai con la fiamma ossidrica per il mondo in cerca del master di questo capolavoro per dargli fuoco. Se è vero che innumerevoli sono state le band britpop, è altrettanto vero che la loro musica si ispirava a generi e band del passato (Beatles, Stones, Who, Bowie, Barret, Clash, pulviscoli di new wave etc)... roba che già ascoltavo da ragazzo, ma questo non vuole minimizzare nessuno, è solo che sostenere che i Pulp siano sperimetatori, resta per me un tantino buffo, specialmente in un forum che ha lapidato "the good, the bad and the queen" dove almeno c'è un tentativo reale da parte di Albarn di rimettersi in discussione (riuscito o no è secondario, ma artisticamente il tentativo c'è)... qui si sono anche messi in dubbio lavori del livello di White Album ed Abbey Road e The Dark Side... e ci si scandalizza se uno viene a dire che un dischetto dei Pulp non merita 4-5 stelle... per me è assurdo.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 15:20 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

Neanch'io darei 4 o 5 stelle a questo disco, cosa c'entra? Tu parli dei Pulp in generale, e i Pulp sono stati una delle band più creative del brit-pop, punto. Ma che me li vuoi paragonare a dei Dodgy, Gene o Cast qualsiasi? Parliamo di un gruppo che univa un'intelligenza lirica sconfinata a un suono che fondeva Kinks, glam, synth-pop, disco music, chitarre granitiche (particolare spesso tralasciato in sede di analisi) e riusciva a essere uguale solo a se stesso. "This Is Hardcore" ti piace, dici. E quel disco non lo definisci audace, "sperimentale"? Ma se è un'invenzione continua... Il brit-pop si ispirava a generi del passato? Certo, come TUTTI i generi musicali e come tutti gli artisti esistiti e/o esistenti (sì, anche Dylan, Floyd e Beatles). "The Good The Bad And The Queen" è il tentativo (per me non porprio riuscito) di Albarn di RImettersi in discussione, visto che già più volte si era messo in discussione con i Blur (non so se hai presente l'omonimo del '97 o "13") e tanto aveva fatto di artisticamente valido. Hai poi dimenticato di notare come anche The Good The Bad And The Queen abbia guardato al passato, e precisamente al rocksteady, allo ska-revival di fine '70 degli Specials (e di "Ghost Town" in particolare, da cui già aveva attinto per la grandiosa "Death Of a Party" su "Blur"), al dub... Come vedi, a fare il giochino dei "saliscendi temporali" sono buoni tutti, e il ragionamento è comodamente applicabile a qualsiasi artista.

DucaViola (ha votato 4 questo disco) alle 17:45 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

Io ho dato 2 stelle a "We Love Life" (non ai Pulp). Ho poi detto che i Pulp non sono stati dei grandi sperimetatori e non che non sono stati originali (per me esiste differenza tra le due cose), il fatto che come loro non c'era nessuno non vuol dire "sperimentazione" (anche Mino Reitano era unico). I Pulp mi piacciono, è stata un'ottima band, intuitiva, arguta (ovvio che li preferisco ai Dodgy... ma sto disco no (PER ME). Poi, loson, parli di Albarn e dei Blur, facendomi notare che già in "Blur" e in "13" Albarn si era messo in discussione... e a me piace... e ci aggiungo anche "Think Tank". Vorrei però ringraziarti di avermi avvisato che i Beatles, gli Stones, i Pink Floyd etc. si sono rifatti ad altri... pensavo che la musica fosse nata con la british invasion. Ovvio che ogni artista vive grazie a chi è arrivato prima, poi c'è chi rimescola le carte tanto bene da condizionare la storia della musica e chi segue un flusso come i Pulp se pur con estrema dignità, originalità, credibilità ed ottime canzoni.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 14:43 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

“Seductive Barry” = 9 minuti di digressione ritmica, quasi una versione apocalittico-lisergica della lounge, collage di voci (su tutte quella sospirante di Neneh Cherry), accenni blue-eyed soul, un coro che dovrebbe essere soul e invece sembra sbucare una messa nera; una “Love To Love You Baby” per una generazione "autistica". “Common People” (qualcosa come il brano pop più importante degli anni ’90) = anche qui struttura circolare, i Kraftwerk “spalmati” su battito motorik, effettistica di chitarra allucinante (nella sezione centrale si ritaglia uno spazio solistico dove sembra una cornamusa, in realtà è un effetto derivato dall’e-bow), performance vocale che spazia da Ferry a Steve Harley, testo fra i più originali dell’epoca. “I Spy” e “F.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E.” = le manifestazioni più compiute di un nuova forma di pièce teatrale, una specie di brano-monologo inserito in atmosfere sempre più cupe e decandenti; il secondo brano, in particolare, è un incubo gothic-electro con breakbeat che si intrecciano a un violino atonale. “Party Hard” = gli Chic che si mettono a fare i Jesus And Mary Chain, telaio disco music + chitarre quasi shoegaze (e i timbri chitarristici dei Pulp sono fra i più ricercati dell’epoca). “This Is Hardcore” = uno spy movie interpretato dai Joy Division di “I Remember Nothing”. Questo per me significa “sperimentare”: creare inedite combinazioni stilistiche, giocare con le possibilità dello studio e della strumentazione. Il resto è aria fritta, soprattutto quest’idea del “condizionare la storia della musica”, processo che dipende da fattori e variabili spesso indipendenti dalla musica stessa o dall’artista.

DucaViola (ha votato 4 questo disco) alle 15:03 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE:

Ho espresso un mio parere, non ho fatto altro. Non si può sempre essere daccordo su tutto. Non c'è bisogno di scaldarsi tanto per un disco. Non la vediamo allo stesso modo... evviva, ben vengano i punti di vista diversi, opposti. Magari la vedremo in maniera simile su un'altra recensione (magari già è successo)... non è necessario che continui ad argomentare la valenza dei Pulp nella storia della musica anni 90, non è una gara di chi ha ragione. Per me il top sono stati i Radiohead... per te i Pulp? o entrambi? o non ti piacciono i Radiohead? Non fa nulla... mi staresti simpatico comunque.

W la musica e Peace and Love

loson (ha votato 7 questo disco) alle 15:25 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

RE: RE: RE:

Ducaviola, i Radiohead li ho adorati da "Ok Computer" fino a "Amnesiac", e cmq negli anni '90 c'è stata tanta altra musica splendida oltre al brit-pop. Non volevo ridurre il tutto a una gara fra band: si stava parlando dell'idea che abbiamo di "sperimentazione" (è un termine orribile e ormai mi sta dando la nausea, ma tant'è...). Forse tu ne hai una diversa dalla mia, a'sto punto, ma continuo a ritenere che i Pulp nel contesto pop siano stati assai audaci nelle scelte sonore e stilistiche. Detto questo, pace e amore e stammi bene.

Lezabeth Scott alle 17:48 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

Questi Pulp fanno sempre divampare il dibattito. Mi piace. Anche perchè s'imparano un sacco di cose leggendovi.

Dr.Paul (ha votato 8 questo disco) alle 15:11 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

tra le influenze che i pulp hanno shakerato con immensa classe citerei anche il grande serge gainsbourg, lo hanno fatto in tempi non sospetti poi, senza cavalcare nessuna onda di revisionismo, piuttosto creandone una tutta loro!

riguardo good bad queen (reinvito target a riascoltarlo per l'ennesima volta ma non mi caga mai) secondo me è disco moooolto bello e sopratutto "interessante", duca viola magari su queste pagine nn ha molto consenso, ma in generale credo si possa dire di un disco andato bene quasi ovunque....no?

DucaViola (ha votato 4 questo disco) alle 15:38 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

RE:

ma sì... per quanto riguarda le cose che ho letto su good bad queen... no problem. Il fatto di non essere in linea con alcuni commenti ci stà... ognuno è libero di pensarla a modo suo. Il mio era solo un esempio come altri che ho fatto, ma solo per evidenziare che, proprio in questo forum, si mettono in discussione tanti album (per me fantastici)... magari dischi che hanno addirittura segnato un'epoca, e poi non si può bocciare un disco di pochi anni fa... mi sembra un paradosso, ma era parte di un discorso più ampio... figurati che me frega se me bocciano Revolver... mica vivo la musica in base alle stellette che leggo qui dentro... starei alla frutta

target, autore, alle 20:54 del 16 ottobre 2009 ha scritto:

Mi annoto nel taccuino delle cose preziose il trattatello losoniano sulle suite dei Pulp! E poi concordo con Paul sul recupero di Gainsbourg: a inizio '90 l'altra realtà inglese che andava in questa direzione erano i nostri beneamati Saint Etienne. E dall'ibrido tra i due nacque quella piccola perla nascosta di "The facts of life" dei Black Box Recorder. Ma qui si divaga. Anche perché "We love life" è un disco del decennio '00, non solo cronologicamente.

sarah (ha votato 8 questo disco) alle 18:04 del 3 febbraio 2011 ha scritto:

Non meno bello della celebre trilogia anni 90.