Hospitality
Hospitality
New entry più debutto in casa Merge Records; e come spesso accade ciò rappresenta una gradita sorpresa. Hospitality, da NY; una New York mostrata non più affranta da scorie e postumi da epicentro dell’Orrore – come descritta da un David Foster Wallace umm a caso - ma riversata nelle liriche del disco (omonimo) nel suo tratto più interpersonale; fatto di quotidianità e frustrazioni e amori perduti e strade/ impressioni da catturare e confezionare in suggestioni indie-(alt)pop.
Produce Shane Stoneback: non a caso Amber Papini and co. hanno scelto lui, in grado com'è di sgrezzare e abbellire, rendendo particolarmente catchy molta della roba passatagli per le mani nel recente passato (Vampire Weekend, Sleigh Bells) – e, nel caso specifico, il materiale del precedente "Hospitality Ep" (2009). L’impostazione base dei brani è più o meno classica, ma quasi mai caratterizzata da un rigore compositivo compassato (Camera Obscura, Widowspeak, Au Revoir Simone). Le rifiniture, in questo senso, paiono centrali nell’economia del disco: gli apporti col contagocce di archi, dei fiati, intensi quando presenti quelli degli ottoni e piacevoli - qui e là - le mai troppo esplicite stranezze psych, che regalano un deciso tocco art alla proposta – a spiccare in questo senso, la sezione centrale di “Friends of Friends”, di "All Day Today" e la coda di “The Birthday”. La componente electro risulta sì misurata, ma caratterizzata da graziosi ghirigori e ornamenti di tastiere - “Betty Wang” – scortati con personalità da un basso cadenzato e tondo (Vivian Girls) - a cui viene facile impalcare groove ad ogni sospiro della Papini. Tutto a vantaggio di un sound che pone in evidenza una ritmica salda (Natan Michel, anche alle tastiere e chitarra), sovente sincopata, altre volte fluida e d’attitudine jazzy, su cantato morbido e intrigante (nota rubata a mergerecords.com: ha imparato a cantare con un lieve accento inglese dai Psychedelic Furs di “Talk Talk Talk”), che a tratti appare come una Bjork normalizzata, e propositiva - senza molte bizzarrie istrioniche, perlopiù. Gli arrangiamenti, che accelerano in qualche fase (con lontani echi di matrice post-punk: Sonic Youth ieri, Peter Kernel oggi; sezione centrale di “Right Profession”/ “All the Days”) mantengono spesso un andatura costante, di regola à la Belle and Sebastian (la spledida “Eight Avenue”), anche (ma non sempre) lineari e sì ricolmi (la strumentazione), come l'ultima Eleanor Friedberger insegna (“Last Summer”, 2010).
Avanza, anche come punto di forza di “Hospitality”, un chitarrismo a volte frammentato, altre più irruente in compagnia di sensibili stratificazioni e distorsioni (esempio prototipico: ibrido tra Pavement e Pixies) senza risultare manieristico. Melodie azzeccate, che in un album pop è ciò che in primis viene richiesto: ma che è anche capace di farne a meno, trovando una sua omeostasi nell’armonizzazione tra gli elementi in gioco.
Spensierati alcuni coretti, che da soli sostengono – melodicamente - interi brani col il loro forte aroma naif (“Liberal Arts”; nel refrain di un pezzo alt rock come “The Birthday”). Momenti di stanca non mancano (“Julie”, qualcosa in “Argonauts” - a parte la splendida coda dreamy) mostrando “Hospitality” come un disco non sempre compatto (ma una formula da mini-album non avrebbe di certo giovato, in quanto ad esposizione mediatica), ma dal quale ci si aspetta ad ogni step il colpo del K.O. Se non in termini così miracolosi, è “Sleepover” a spiccare (giocandosela ampiamente con “Friends of Friends” ed "Eight Avenue"): a cavallo tra new wave e dream pop - il basso “portante” -, il pezzo si riversa in un refrain spettrale e opaco - con soffusi umori vintage - con smarcamento simil-noise nel finale.
Gruppo di belle speranze e ampie potenzialità ancora da esprimere, gli “Hospitality”; e che intanto si cimenta nel ruolo di portabandiera alt-pop di questo 2012 già, da queste prime battute, promettente. Vi pare (così) poco?
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