Oneida
Rated O
Rated O è il secondo capitolo della mastodontica trilogia Thank your parents inaugurata nel 2008 con Preteen Weaponry e, manco a dirlo, è una ficata allucinante! Non sono ortodosso? Me ne frego. In giro vi hanno messo in guardia dai venditori di fumo-facili esaltatori come il sottoscritto? Me ne strafrego. È evidente che chi non riesce a cogliere la sublime grandezza del verbo oneidiano è uno squisito ignorante o una persona molto triste. Sono provocatorio? Si lo sono, e indovinate un po’? Esatto, avete azzeccato: me ne strafrego pure di questo.
D’altronde Rated O è stato una viaggio talmente sballoso da tenermi in estasi tuttora mentre scrivo questa breve nota di divulgazione musicale parzialissimamente critica. Perchè qua è inutile stare a fare tanto i pignoli e i critichini. Rated O è evidentemente un’opera monumentale. Un triplo disco per oltre due ore di musica è una presentazione che ammazzerebbe chiunque sul momento. Ed è inevitabilmente un salto nel vuoto, un suicidio artistico e commerciale inaudito per tutti quelli abituati a pensare che l’attenzione media dedicata a un disco è al massimo una mezzoretta, specie oggi in epoca di peer to peer, quando ascoltare un disco più di due o tre volte è un puro miracolo.
E non pensiamo neanche a tutti quelli che con due ore di musica di simile fattura ci avrebbero campato per dieci anni, spalmando i pezzi migliori su dischi mediocri carichi di riempitivi in uscite periodiche distanziate di due-tre anni. Pazzi davvero gli Oneida, giunti per l’occasione al decimo lungometraggio auditivo (sarebbe riduttivo per loro parlare dei comuni lp) nell’arco di tredici anni. E trovarne uno brutto… Ma non è il caso di ripetere le cronistorie già fornite un anno addietro nello scritto su Preteen Weaponry.
È il caso piuttosto di tornare ad affermare con forza che dopo Rated O niente potrà essere più come prima per chi si vuole avventurare nel campo della psichedelia. La cosa buffa è che lo stesso si può dire per il loro primo grande capolavoro, quell’Each one teach one che infiammò le platee nel 2002 aprendo (appena in ritardo) un decennio che ora viene idealmente chiuso alla grande, confermando l’enorme importanza storica della band newyorkese.
Niente sarà più come prima perché è vero, Rated O non pare inventare nulla di significativo (e in questo è senz’altro inferiore allo stesso Each one teach one), nonostante il primo disco “elettronico” sia una novità più che considerevole nella loro discografia. Ma la struttura concept dell’opera e l’incredibile qualità delle composizioni fanno di Rated O un sublime catalogo di tutto quello che è può denominarsi psichedelia del terzo millennio, o neo-psichedelia, se vi piacciono i giochini di parole con neo-post-avant-e compagnia bella (e a me piacciono in effetti).
Chiunque vorrà coniugare immaginari espansi (più o meno aiutati da droghe di vario tipo) e note lisergiche d’ora in avanti sarà obbligato a guardare all’ingombrante Rated O, modello per chi si voglia avventurare nel campo dell’elettronica acida (primo disco), del rock più o meno passatista e heavy (secondo disco) o dell’estasi mistica krauteggiante (terzo disco). Il primo disco lo dicevamo, è dal punto di vista stilistico la vera novità per gli Oneida, che fino ad ora non avevano certo avuto remore ad usare sintetizzatori, loop ed effetti digitali vari, ma l’avevano sempre fatto partendo da una coscienza genuinamente rock.
Ora invece con un’attitudine rovesciata il risultato è un incredibile disco di elettronica che spazia tra jungle, techno e glitch fondendole con le esperienze più disparate: il viaggione krauto in bilico tra cosmicità Tangerine Dream, modernità ambientale Aphex Twin e circolarità minimal low-fi nel risultato strepitoso di 10:30 at the Oasis, brano per cui si sprecano gli aggettivi nel tentativo di descriverlo: ipnotico, suadente, ansiogeno, spettrale, psicotico, cybernetico e chi più ne ha più ne metta.
Brano anticipato dalla ritmica tutta digitale, ossessiva e martellante della selvaggia minimal-techno di What’s up jackal?, che a sua volta è preceduto dall’avvolgente dub elettrico di Brownout in Lagos: come se i Can si fossero fatti un corso intensivo di elettronica moderna e si fossero lanciati in una jam con Jah Wobble dietro il sapiente mixaggio di Anthony Rother. A chiudere la magnifica quaterna elettronica è Story of O, rocambolesca e straripante. A sconvolgere è soprattutto la batteria free di Kid Millions che con uno stile più unico che raro diventa il motivo portante che crea interesse attorno al furore sonoroclasta di un imponente wall of sound. Fin qui un disco-gioiello sorprendente e degno di entrare negli annali dell’ortodossia elettronica.
Ma poi arriva The human factor che fa storcere il naso a molti con la sua partenza slow-core che non pare portare da nessuna parte e che invece conduce ad una straziante serie di grida totalmente amelodiche. Quella che pare a molti una cantonata pazzesca è in realtà un simbolismo: l’entrata in scena dell’umanità che urla con sgarbo la propria presenza, rivendicando uno spazio tra il mondo alienante, digitale e “virtuale” fin qui predominante. Di fatto The human factor è uno shock concettuale di una potenza incommensurabile che fa di questo primo disco un’opera d’arte distopica, un devastante atto di accusa per quel pericolo già denunciato a suo tempo da un altro capolavoro assoluto come Ok computer dei Radiohead.
Finita l’epopea elettronica il secondo disco spazia tra sonorità più consone agli Oneida, già affrontate in dischi passati come Secret Wars, The Wedding, Happy New Year. Di qui l’impressione di un disco-summa di brani “classici” come l’acida e accattivante The life you preferred, oppure come i trip cosmici Luxury travel e la visionaria-ondeggiante Saturday. C’è poi l’elettro-rock d’assalto di The River, potente e diretta, barcollante tra chitarre acide, noise e fughe alla Motorpsycho; viene infine l’anomala serie di canzoni più heavy, di diretta derivazione hard-rock 70s (la I will haut you dal groove assai fico) o di discendenza ‘90s, come nell’impetuoso stoner elettronico di Ghost in the room, turbine di violenza ossessiva spaventoso!
E c’è pure spazio per un garage-rock’n’roll da terzo millennio, l’infiammata It was a wall che tra urli primordiali, riff d’annata e una freschezza giovanile invidiabile rischierebbe di far ingelosire pure i migliori Liars. Si giunge quindi alla terza parte, che di fatto altro non è se non il proseguimento diretto del discorso aperto con Preteen Weaponry, tendente a rileggere con fervore la psichedelia più cosmica e siderale del kraut-rock dei tempi d’oro. O è un compendio di spirito new age che tra siluri siderali e ritmi sonnacchiosi ripropone lo spirito di gruppi come Popol Vuh, Ash Ra Tempel e i primi Tangerine Dream, riallacciandosi soprattutto alla produzione contemporanea di altri “passatisti” illustri come gli Acid Mothers Temple.
Ultimo capolavoro di Rated O è però Folk wisdom, che segue alla breve parentesi spettrale di End of time. Fin dall’apertura si comprendono gli umori più combattivi e tribali del brano, evidentemente molto più radicale ed energico della suite precedente. È un altro gioiello Folk wisdom, l’ennesima cavalcata strumentale impetuosa ormai tipica degli Oneida, sullo stile di composizioni magistrali come Preteen Weaponry Part 1 e Changes in the city.
Tra loop spaziali, distorsori, clangori metallici alienanti e bolle di suono sospese a mezz’aria si fa largo la solita incredibile scorrazzata tribale di Kid Millions, che per chi non l’avesse ancora capito, è senza dubbio Dio stesso che è sceso in terra, ha visto lo sfacelo che ci circonda e ha deciso di sfogarsi alla batteria per cancellare la frustrazione di aver fatto un lavoro di merda. Non c’è altro da aggiungere. Anche se ormai c’è da aver paura del terzo capitolo della trilogia Thank your parents. Il mio cuore potrebbe non reggere a tanta generosa potenza sonora.
LINK:
Sito ufficiale: http://www.enemyhogs.com/site/
myspace: http://www.myspace.com/oneidarocks
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