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R Recensione

7/10

John Zorn

The Last Judgment

Battiti marziali e urla da far agghiacciare il sangue nelle vene (“Resurrection” fa sembrare Diamanda Galás una liceale), messe dark jazz celebrate a monosillabi, sussurri e reticenze sonore (“Misericordia”), il gran sacerdote Mike Patton che dismette la stola in favore di un limaccioso ed adrenalinico math-core pugnalato dall’organetto di John Medeski (“Friday The 13th”), inediti fremiti emozionali che scuotono le trame più melodiche e rarefatte (“Le Tombeau De Jacques de Molay” è arrangiata quasi come un brano di musica sacra: un caso, nell’anno del secondo volume di “The Hermetic Organ”?), terrori psichedelici sbranati da interpretazioni vocali che alternano belluina ferocia e parodistica ruffianeria (“Sleepy Hollow” fa rivivere certi Naked City), chiassate doom arginate in canzoni che si permettono l’ulteriore lusso di spendere un vero e proprio ritornello salmodiato goth (“Incant”), una geniale “Tria Prima” che – calando le funamboliche plasticità dei King Crimson degli anni ’80 in un immaginario surreale, come dei Black Widow fumettosi – si consacra tra i migliori pezzi di sempre dei Moonchild.

Con “The Last Judgment”, il settimo capitolo di una saga inaugurata oramai una decade fa (il fragile e monocorde “Moonchild: Songs Without Words”, con in formazione i soli Patton, Trevor Dunn e Joey Baron, venne rilasciato nel maggio 2006), cala il sipario su una delle più stimolanti avventure del John Zorn Y2J “estremo”, orfano di alcuni tra i suoi migliori gruppi di sempre (oltre alla città nuda, converrà citare almeno i Painkiller e gli Hemophiliac). Come valutare, in retrospettiva, il cantiere Moonchild, prescindendo dal valore indiscutibile di un ultimo tassello comunque non all’altezza delle perle “Six Litanies For Heliogabalus” e “Ipsissimus”? L’esperienza – con ogni probabilità, vista l’età che avanza, sarà l’ultima di un certo spessore valvolare per il buon John – è sicuramente positiva. Non solo perché, dopo un avvio balbettante, è stata in grado di riprendersi e, banalmente, di dare vita a dischi di grande spessore. Moonchild è una delle poche formazioni zorniane del Nuovo Millennio che, nonostante la fluidità dell’assetto e la grande sperimentazione operata sullo spettro sonoro della matematica impertinente in musica, è riuscita a mantenere una propria identità caratteristica, subito riconoscibile: solo The Dreamers (ascolteremo se simile sorte bacerà anche gli sviluppi futuri di Nova Express e Gnostic Trio), soprattutto grazie ad un paio di release tra le più vendute, rimbalzate ed accessibili del catalogo Tzadik, si sono potuti fregiare di questo bel riconoscimento.

Geometria, distorsione, esoterismo, ma anche senso pratico, capacità di raddrizzare la rozza in corso d’opera (l’inserimento di Jamie Saft, Ikue Mori e delle tre voci liriche femminili di Martha Cluver, Abby Fischer e Kirsten Soller nella line up di “Six Litanies For Heliogabalus” rimane, ad oggi, l’intuizione più felice di Zorn) e profondissima visione d’insieme. Moonchild non è stato (solo) hardcore evoluto per liberi pensatori: si è trattato, piuttosto, di un coworking speso interamente al raggiungimento di un traguardo supremo, la messa in discussione del jazz come pura forma e del metal come puro contenuto. A voi stabilire, oggi, se l’esperimento possa dirsi compiuto.

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