R Recensione

7/10

Silver Jews

Looked Out Mountain, Looked Out Sea

Ciò che siamo oggi è la risultante di una genealogia di fattori, i più dei quali sommersi e incidentali. Un sottotesto di errori, illusioni, rimpianti e ricatti talvolta riscattati. Ciò che non viene portato alla coscienza prima o poi riemerge come fato, sosteneva Jung. Schegge di dubbio, frammenti di paura, pezzi d’incertezza. David Berman, anima e corpo dei Silver Jews, s’è finalmente rassegnato a convivere con un mondo sempre più sdegnoso ed inospitale per un poeta, a stemperare la sua angoscia nel fatalismo e nell’ironia. Prova ne è: la rottura (momentanea?) dell’informale partnership che da oltre un decennio lo lega all’ex Pavement Stephen Malkmus (controparte ludica e post-adolescenziale alla sua umbratile malinconia) e il fatto che, a partire dal 2006, ha cominciato a suonare dal vivo le sue canzoni (poco più di 80 divise in 6 album), contravvenendo così alla regola del silenzio che s’era imposto ad inizio carriera.

Smettendo cioè di nascondere un atteggiamento autistico dietro una visione riduttiva della propria integrità, di negare al suo pubblico la soddisfazione che scaturisce dalla partecipazione e dalla ritualità. Vent’anni fa, erano i tempi del college a New York, faceva scherzi telefonici in compagnia dei futuri Pavement (Malkmus e Nastanovic), riempiendo i nastri delle segreterie con improvvisate session a bassissima fedeltà, oggi, fra mille leggende suburbane ispirate alla vecchia Nashville, dove risiede con la moglie Cassie, ha messo in bella copia le dieci sgambettanti storie di “Looked Out Mountain, Looked Out Sea”.

Ci sbagliamo due volte sulle persone che amiamo: prima a loro favore, infine a loro svantaggio. Questo, grossomodo, il concept del disco. Di uno stoicismo impassibile e vagamente divertito.

La musica è quello che potremmo definire un “vocal driven country rock”: una leggera trapunta di sonorità bucoliche, cucite insieme su un ritmo sostenuto, in modo tale da non interferire con il reading melodico dei testi. Ossimoro: uno slo-core narrato in un sol fiato, su un tono d’insieme sardonico e scanzonato, in grado di cogliere sempre il lato umoristico della tragedia, il riso nel pianto.

What Is Not But Could Be If è un western-swing dall’intonazione stentorea e baritonale che traccia una sorta di equazione sulle infinite possibilità del caso con la variabile dei ricordi; Aloyisius blue grass drummer, blue grass ad andatura ferroviaria, è la tragicomica storia d’amore fra un giovane sguattero e una ragazza affamata in tutti i sensi, degna  a tratti d’un Saroyan d’avanspettacolo; Suffering Juke-Box è un hillbilly che culmina nella corale finto-chiesastica del ritornello, cronache di una cittadina dimenticata da dio dove anche un semplice juke-box può salvarti la vita, assorbendo i cattivi pensieri e rilasciando solo note spensierate. My Pillow Is The Threshold e Strange Victory, Strange Defeat, sono ballate a bassa fedeltà per hammond e fiddler, cantate in una via di mezzo fra Cash e Reed; Open Field, una specie di haiku campestre allietato da cantici di sirene pop francesi d’antan. San Francisco B.C. è forse la cosa migliore dell’album, l’ennesima storia d’amore e disillusione in bilico fra la murder ballad percussiva e il vaudeville da festa del raccolto.

La fiabesca Candy Jail ha una melodia dolce per piano e chitarra scheggiata dai controtempi e una strofa affabulata alla maniera dei Lambchop. In Party Bardge Berman s’immedesima nei panni di un festoso Caronte che guida i passeggeri attraverso i gironi d’un’ubriacatura infinita. We Could Looking For The Same è una melodia facile e zuccherina che può ricordare il Neil Young di Comes A Time.

Meno profondo e torturante che in passato, forse, ma sempre intelligente e godibile.

Dopotutto: “In musica umorismo e cuori spezzati sono entrambi sapori indispensabili, come aglio, oglio e peperoncino” (David Berman)

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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