Bill Callahan
Sometimes I Wish We Were An Eagle
No Bill, non ce lo meritiamo. Che poi non so nemmeno perché ti sto chiamando Bill, visto che sarai sempre – per tutti – Smog. Che puntualmente nella carriera degli artisti c’è sempre questo momento di frattura nel quale decidono di abbandonare l’alias, il nome d’arte, e ritornare sé stessi. Come se a noialtri ce ne fregasse qualcosa, del nome di battesimo. Mica siamo l’anagrafe. Anzi, ti dirò di più: spesso quando si abbandona il nome d’arte si sbaglia il colpo. Prendi Bright Eyes che è tornato ad essere Conor Oberst. Mai l’avesse fatto. Prendi i dischi di Bonnie “Prince” Billy usciti a nome Will Oldham. Ne avrà azzeccato sì e no uno. Prendi Songs:Ohia da quando ha cominciato a cambiare nome. E il Mark Kozelek solista?
Ecco perché non ce lo meritiamo. Per i soliti paragoni, innanzitutto: dici Bill Callahan e pensi Will Oldham, Jason Molina, David Berman … dici Smog e pensi Bonnie “Prince” Billy, Songs: Ohia, Silver Jews… Ormai ci avrai fatto l’abitudine. Magari ti farà anche piacere. L’altro motivo, è che “Woke on a Whaleheart” non ci aveva convinto granché. Anzi, perdona la franchezza, non mi aveva convinto per niente, col suo country-western ciondolante. Allora ho deciso che non mi piaceva Bill Callahan ma mi piacevano gli Smog.
Poi ho saputo di Joanna Newsom e tutto il resto. Quando c’è di mezzo una donna le cose tendono a subire variazioni consistenti. Quando poi c’è di mezzo anche un amore finito le cose rischiano definitivamente di spezzarsi. Allora, mi sono detto, bisogna dare una seconda possibilità a questo Bill Callahan.
“Ho iniziato cercando cose ordinarie / ad esempio quanto si pieghi un albero nel vento / ho cominciato a raccontare la storia senza conoscere la fine. / Sono stato tetro / poi più leggero e luminoso / poi di nuovo tetro.” (“Jim Cain”). Questa sì che è una dichiarazione d’intenti. Inutile dirti – e non ce ne voglia Joanna – che ti preferiamo tetro. Tetro, oscuro e profondamente desolato come nell’ultimo album degli Smog (“A river ain't too much to love” – 2005). Morbido come i Lambchop e caldo come Leonard Cohen. E ci dispiace sentitamente che lei venga a disturbarti il sonno al punto da farsi implorare di smettere (“Mostrami una strada / per liberarmi di questi ricordi”), ma se i risultati sono questi non possiamo provare nessun rammarico, né vogliamo aiutarti in alcun modo, perché “L’amore è il re delle bestie / e quando ha fame deve uccidere per mangiare”. (“Eid Ma Clack Shaw”).
L’arrangiamento “orientale” di “The Wind And The Dove”, misurato e solenne, è forse la canzone più bella che ci hai regalato dai tempi di “Rock Bottom Riser”. Tutto il disco è ispirato dagli elementi della natura (il vento, gli alberi, i fiumi), luogo di rinascita, ispirazione e sollievo. Lo stesso effetto sortito dai dettagli contenuti nelle tue canzoni: il pianoforte di “Too many Birds” punteggia la storia – metaforica - di un albero che rischia di spezzarsi per il peso dei troppi uccelli posati sui suoi rami. E quante volte devi iniziare e riprendere l’ultima frase per riuscire a cantarla tutta e concedere il finale al violino (“Se solo tu potessi fermare il battito del cuore / per il tempo di un solo battito del cuore”). Molti non condivideranno, ma il mio pezzo preferito di “Sometimes I Wish We Were An Eagle” è “All Thoughts Are Prey To Some Beast”, velluto percussivo su chitarre circolari alla Arab Strap, arrangiamenti sontuosi condotti da Brian Beattie (Okkervill River, Shearwater) e la tua voce che non canta ma declama le parole come potrebbe fare Lou Reed. Tutto talmente bello che non ci dispiace nemmeno sentirti così serenamente rassegnato nei quasi dieci minuti finali di “Faith / Void” (“È tempo di rinunciare a Dio / È la fine della fede / non dovrò combattere mai più / per trovare pace nella mia vita”).
Non preoccuparti Bill, la fede prima o poi si ripresenterà, che le vie del Signore sono infinite. Quanto a lei, beh, no Bill, lei non tornerà più. Tanto non ti merita, proprio come noi non ci meritiamo questo nuovo gioiello degli Smog.
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