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R Recensione

6/10

Fridge

The Sun

Ecco un'altra band che, similmente al discorso fatto in occasione dell’uscita di “Mirrored” dei Battles, potrebbe ben rappresentare l’idea di quello che, con un aggettivo infelice ma che ben rende l’idea, possiamo considerare “supergruppo”.

Ai Fridge, anche essendo costituiti da soli tre elementi, potrebbe calzare questa definizione: se agli inizi della loro carriera, nel 1996, erano poco più che sconosciuti ragazzini che sondavano la propria creatività in ariose stanze intellettuali di estrazione Tortoise, oggi, grazie al grande successo ottenuto nel corso degli anni dalle carriere solistiche, sono diventati nomi di spicco nel panorama del sottobosco musicale più colto.

Soprattutto le corde del gruppo hanno avuto fortuna fuori dalla band madre: il chitarrista Adem Ilhan ha coccolato tantissimi indie-kids con i suoi album di pastorale folk-pop contaminato con glitcheria varia, mentre il bassista Kieran Hebden, che tutti abbiamo imparato a conoscere con lo pseudonimo Four Tet, ha intrapreso una carriera ricca di soddisfazioni, ultima in ordine di tempo la florida collaborazione con il jazzista Steve Reid, sfociata nei due volumi “Exchange Sessions”.

Non si deve però incorrere nell’errore di sottovalutare il lavoro svolto alle percussioni dal grande Sam Jeffers, poiché solo un batterista con gli attributi come lui riuscirebbe a fungere da perfetto arbitro nel tiro alla fune che i due intavolano abitualmente, l’uno tirando verso la sperimentazione e l’elettronica, l’altro verso l’intimismo e il folk, partorendo infine un amalgama equilibrato, tanto che i cinquanta minuti interamente strumentali dell’album sono in grado di regalare spunti interessanti.

Tanto è vero che immergersi in queste acque ricche di elementi nutritivi per la mente può rivelarsi un’esperienza emozionante, densa ed avvolgente, oltre che molto gratificante.

Intendiamoci, oggi come oggi, al quinto album, la sigla Fridge, resuscitata dopo sei anni di silenzio, non rappresenta più un avamposto del suono maggiormente pionieristico, come lo fu ai tempi del post rock; non rappresenta nessun scintillante qui e adesso; non risalta subito nel mare di uscite mensili annunciate da roboanti squilli di tromba.

Niente di tutto questo: i tre sono diventati una creatura pensierosa e per niente solare, a dispetto del titolo, che trae nuova linfa dall’esperienza dei propri componenti, generando un album a modo suo classico, in buona parte focalizzato sulla batteria dell’eccellente Jeffers: si sentano a proposito in apertura la titletrack e “Clocks”, con il montare deciso e sereno della chitarra e un finale a base di tecnicismo avant.

Come si diceva, il disco aderisce in modo più o meno fedele alternativamente ai modelli dell’uno o dell’altro componente: cosi ad esempio se le prime due citate pendono dalla parte di Four Tet, “Our Place In This”, e la conclusiva “Years And Years And Years…” calcano la mano sulle atmosfere acustiche e venate di psichedelica glitchy tanto care a Adem.

Fin qui discrete canzoni ma nulla per cui gettarsi dalla finestra: dove “The Sun” sembra decollare è invece nella parte centrale (non buttiamoci comunque...): il giro di chitarra odoroso di math rock ’90 di “Eyelids” che si (e ci) consuma i nervi piano a piano, salvo riprendere la freddezza nel finale, ci ricorda che le sonorità della città ventosa, figlie decennio passato, hanno mantenuto ancora il fascino che ricordavamo e sono ancora ben radicate nel dna del suono più colto in circolazione.

Osram” rivela invece influenze jazz: inizia con un minuto di caos totale, poi parte un piccolo bignami del post rock: batteria apparentemente slegata dal brano ma decisa nel proprio incedere, le chitarre cesellano paesaggi di contemplazione accompagnate da scampanellii e xilofoni. Uno schema gia conosciuto, ma che suona ancora accattivante.

Insects” è la maturazione della passione di Hebden per il jazz, quindi sax in delirio, tappeto frastagliato di beat e chitarra in volo nel cielo notturno.

A smorzare un po’ di seriosità ci pensa la comparsa di synth, piano, xilofono e soprattutto il beat digitale del Roland 808 che danno vita a “Comets”, un viaggio luminoso tra atmosfere sintetiche e crepuscolari, con una strana atmosfera sbarazzina nascosta sotto la pelle del brano.

Lost Time” sembra un estratto del repertorio degli Hood, ma come inglobato negli schemi di ingigantimento e rilascio della tensione dei Mogwai; è anche l’unica traccia in cui si fa uso delle voci, non a declamare testi bensì come strumenti di uno strano coro.

La glacialità e la malinconia sprigionati potrebbero essere la perfetta colonna sonora per una passeggiata tra i campi incolti ad autunno inoltrato, con un bel cielo plumbeo sopra la testa.

In fin dei conti, è probabilmente questo il modo più sensato e coinvolgente di suonare post rock, qualsiasi cosa possa significare, oggi.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 0:22 del 31 agosto 2008 ha scritto:

Thumbs up!

Sei mostruosamente obiettivo, Matteo: non riuscirei mai a mantenermi distaccato così come fai tu, nè in positivo nè in negativo! Dunque, complimenti. Il disco in questione l'ho scoperto assolutamente per caso (al tempo mi era passato del tutto inosservato) e devo dire che mi prende, parecchio. Ma Four Tet, nel bene o nel male, mi piace sempre ("Everything Ecstatic" è un capolavoro!!) e quindi, sì, ottima la title-track iniziale, folktronica all'ennesima potenza. Il resto del disco, invece, mi sembra anche molto più vario: del jazz in "Oram" (ottimo orecchio), "Clocks" che pare frutto dei Don Caballero meno intrippati, il delirio math di "Eyelids"... freddezza, però, non ne sento molta. Semmai, un po' di disorientamento: normale, visto la pletora di musica abilmente concentrata qui dentro. Per me è un 7.5 (arrotondato per difetto). Scrivi, scrivi ancora, sei bravissimo!