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R Recensione

6,5/10

There Will Be Blood

Horns

Per poter valutare con il giusto metro di giudizio “Horns”, terzo disco in appena un lustro per il power trio varesotto There Will Be Blood, sarebbe necessario contestualizzarlo in un discorso più generale che prenda in considerazione anche i precedenti “Wherever You Go” (Ghost Records, 2011) e “Without” (Ghost Records, 2013), già recensiti da Giorgio Zito, con i quali va a formare una sorta di lunga trilogia narrativa incentrata sulla figura di un viaggiatore solitario, la cui anabasi – tra freaks e personaggi mastersiani di ogni risma – dovrebbe portarlo alla completa redenzione interiore. Un’epopea da grande romanzo odeporico americano, il luogo d’adozione dei poveri e dei derelitti che, per usare le parole di Steinbeck, “non si vedono come dei proletari sfruttati, ma come dei miliardari in difficoltà temporanea”: il vagare nelle praterie della mente – in fin dei conti inesistenti – è lo stesso su cui hanno insistito con successo, negli ultimi anni, i Guano Padano. La diversità di approccio delle due formazioni è, tuttavia, palese: tanto sono espansi ed articolati questi ultimi, quanto secchi, ruvidi ed essenziali i primi (geneticamente assai più affini – grazie anche ad una lineup che comprende due chitarre e una batteria – a The Jim Jones Revue, Jon Spencer Blues Explosion o primi Black Keys). L’unico, parziale punto di contatto viene individuato, a metà scaletta, nel polveroso galoppo twang-western di “Ride”, in fin dei conti l’uscita più prevedibile e didascalica delle dodici.

C’è, probabilmente, un fondo di verità nelle dichiarazioni di chi dice che il blues, oggi, non abbia più nulla da dire: motivo per cui i There Will Be Blood la mettono giù in termini di variazione, più che di quantità. “Horns” declina con efficacia, in lungo e in largo, tutti i paradigmi flessionali del verbo originario: così che, a parità di base, ogni brano sviluppa una propria specifica identità. “Fire”, ad esempio, è uno scatenato roots rock dal groove secchissimo ed irresistibile, avviluppato in un mastodontico e bellicoso arrangiamento per ottoni (quasi una propaggine strumentale a sé). Nella martellante, minimale “Burn Your Halo” (immaginate i My Disco suonati da un bluesman del Delta), l’armonica a bocca di Marco Pandolfi smuove da sola impressionanti vortici di suono: una heavyness occulta che si fa esplicita nelle zone d’ombra quasi stoner di “Turn Your Back” (qui il collegamento immediato è con il barbuto Auerbach, in uno dei pezzi migliori della discografia del duo di Akron, Ohio), nell’organetto che incendia l’hard rock di “Mismatch” e nelle ritmiche compresse dell’incalzante boogie di “Undertow” – non è certo un caso che la label norvegese per cui esce il vinile si chiami Blues For The Red Sun.

In verità, a nostro giudizio, i ragazzi funzionano meglio quando il volume degli amplificatori viene tenuto sotto controllo. In quei frangenti, “Horns” è capace di diversificare con maggior scioltezza la propria proposta, evitando di inanellare doppioni elettrici (“Reviver”). Di grande fascino è il didgeridoo che percorre la colonna vertebrale delle acustiche cajun della title track (con sezioni in 5/8 e 6/8 sapientemente alternate fra loro). Il nudissimo spiritual di “Blind Wandering”, un’invocazione atemporale per sole voci e handclappin’ (“My mother, please show me / Show me where to go / ‘cause the moon won’t shine and my eyes are blind / And I don’t know where to go”), mette in comunicazione la band con lo Stefano Pilia di “Blind Sun – New Century Christology”. Il conclusivo folk bandistico di “Til Death Do Us Apart”, infine, regala inusitati sprazzi di serenità ad una scaletta per il resto dinamica ma, allo stesso tempo, piuttosto cupa.

Nice shot, sons of a gun!

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